Capitolo 10: bellezza fatale -1°parte

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Bemar, città della regione monte Opale

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Bemar, città della regione monte Opale. 30 luglio 495, anno della Lira.

Situata nella regione del monte Opale, la città di Bemar era una distesa sconfinata di tetti, parchi e giardini. Chiunque la visitasse rimaneva affascinato dalle vie ampie e luminose, costellate da botteghe artigianali molto apprezzate dagli stranieri che provenivano dai regni confinanti. Ma dietro a questa facciata di prosperità, si nascondeva una sorveglianza scrupolosa. Si poteva parlare di tutto tranne di magia. Qualunque diceria o sussurro pronunciato nei vicoli più remoti sarebbe giunto con rapidità alle orecchie del sovrano.

Nel punto più alto della città, infatti, si ergeva imponente la residenza privata del re. Il castello era un gioiello architettonico, tale da far insorgere l'invidia ai palazzi più sontuosi dei reami confinanti: era conosciuto da tutti per le pareti tempestate di gemme scintillanti e i soffitti affrescati da illustri pittori. Ma c'era molto di più in questo incantevole scrigno. Raffinate sculture di marmo erano collocate nei corridoi che risplendevano di bellezza per la luce soffusa dei lampadari di cristallo. Ogni arazzo appeso sui muri, e ciascuna fontana collocata nel giardino trasudavano lo sfarzo che Alessandro si era prodigato di raggiungere per puro gusto di vantarsene. Circondato da un fossato, avvolto in un abbraccio di alte mura e presidiato da una moltitudine di fanti, l'edificio godeva di una sicurezza di alto livello.

Erano trascorse alcune ore da quando erano partiti i piccioni dalla capitale, e all'entrata di Bemar si iniziarono a intravedere gli effetti provocati dai messaggi inviati in ogni angolo del regno. Schiere di carrozze sfumate di verde smeraldo si susseguirono una dietro l'altra, in una marcia inarrestabile e per nulla silenziosa. I cigolii delle ruote e gli ordini impartiti dai cocchieri ai cavalli non passarono inosservati. Le finestre si spalancarono. I balconi si riempirono di sguardi incuriositi, e i marciapiedi delle vie furono gremite da voci e da urla di bambini.

«Che il sovrano abbia indetto un ballo sontuoso nella sua residenza?» ipotizzò una ragazza mora passeggiando in compagnia di un giovane altolocato.

«Ne dubito. Altrimenti avrei ricevuto l'invito» le rispose stringendola a sé per evitare che venisse travolta dalla furia dei cavalli.

Scortate da gruppi di guardie, le carrozze passarono di fronte alle taverne, traboccanti di uomini intenti a sorseggiare boccali di birra che tenevano in mano. Le sagome dei mezzi di trasporto si riflessero sui vetri delle botteghe pullulanti di chiacchiere e di scambi commerciali. Quando anche l'ultima imboccò la strada che conduceva al castello, gli abitanti non fecero caso alla carrozza solitaria che si apprestava a raggiungerle. Priva di scorta, procedeva con lentezza mentre schivava i piccoli gruppi sparsi qua e là lungo le vie. Ma la polvere sollevata dalle sue ruote emanava un'aura fredda, più gelida del terrore che fece venire la pelle d'oca a chiunque la inalasse.

Sogni e speranze alimentavano il sorriso della fanciulla che era al suo interno. Era stata convocata dal sovrano, e quella busta che teneva serrate fra le dita glielo ribadiva ogni volta che ruotava gli occhi verso il basso. Era un sogno che si era realizzato dopo anni di attesa. Il primo di una lunga serie di obbiettivi che si era prefissata di raggiungere. Neanche quel giorno si pentì nell'aver sacrificato la sua infanzia tra le armi e i volumi di guerra. Trovò la conferma nell'aver speso bene quel tempo quando lanciò fuori dalla finestra una serie di piccoli dardi con una balestra. Nonostante gli scossoni e le brusche frenate, centrò tutti i tronchi degli alberi del sentiero confermando a se stessa di avere una mira eccellente. Ora non le rimaneva altro che dimostrare la sua bravura alla persona che lustri prima le aveva promesso che sarebbe divenuta la guerriera più forte del reame, ovvero ad Alessandro Tambrada.

Un forte sobbalzo la indusse ad appoggiare l'arma che teneva in mano nel sedile. E quando percepì che la sua schiena venne ancora più premuta sull'imbottitura dello schienale intuì che la salita aveva aumentato l'inclinazione. Iniziò a scostare più volte la tenda per scrutare quanto mancasse per arrivare alla cima del monte. Ma ogni volta che si affacciò alla finestra rimaneva delusa nel notare che il castello era ancora in alto e lei ancora troppo in basso. La poteva fissare quanto voleva minacciandola con lo sguardo, tuttavia la lunghezza della strada non si accorciava nemmeno di un metro. L'edificio era ancora distante, e la carrozza doveva superare manciate di tornanti prima di arrivare a destinazione. Il sentiero si fece all'improvviso più ripido e di conseguenza i cavalli rallentarono l'andatura prolungando il tempo di percorrenza. Come se non bastasse il tintinnio della lanterna appesa sul soffitto aumentò, e anche le oscillazioni crebbero d'intensità. Per un attimo pensò di intimidire il cocchiere per costringerlo ad andare più veloce. Tuttavia le sembrò un'idea migliore prendere il controllo del mezzo di trasporto e tramortire l'uomo scaraventandolo per terra. Sbuffando, fissò l'esterno ma quando scorse i muri della cinta a fianco alla strada si rallegrò. Ancora due tornanti e sarebbe giunta di fronte al ponte levatoio.

La fanciulla non poteva vederli ma gli arcieri che stavano pattugliando la torre della residenza del re, avevano già compreso da dove lei provenisse scorgendo il colore del tettuccio della carrozza: blu cobalto.

«Viene da lontano. Regione monte Cielo!» esclamò uno di loro per poi riprendere a fare la ronda.

L'eco della sua voce raggiunse i due soldati che stavano sorvegliando l'entrata del castello. Intravedendo una piccola scia di polvere all'orizzonte sbuffarono in contemporanea. Quel giorno era sfilate numerose carrozze e ormai avevano perso il conto di quante si fossero fermate di fronte a loro.

«Ahimè! Ancora un'altra. Spero che sia l'ultima della giornata perché ho tutte le gambe indolenzite. Fra poco tramonterà il Sole e non mi va di rimanere qui fino a stasera. Teodoro, che ne dici se riferissimo alla persona che sta per arrivare che il sovrano non accetta più nessuna visita?» propose il soldato al suo collega mentre la carrozza si stava avvicinando all'entrata del castello.

L'uomo gli diede una forte gomitata sul fianco. «Fai silenzio Rodolfo. Siamo obbligati a eseguire gli ordini del re. Finché arriveranno non possiamo ritornare in caserma» commentò rimproverandolo.

Anche se era provato dalla fatica, Teodoro ribadì con un'occhiataccia che non avrebbe mai osato non adempiere ai suoi doveri di soldato. Era un compito che lo riempiva di orgoglio. Non era da tutti avere il privilegio di sorvegliare la residenza privata del sovrano.

La Fenice del vento - Fiore di PeoniaDove le storie prendono vita. Scoprilo ora