Capitolo 17: tuono e fulmine -3°parte

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Nel frattempo, le guardie si avvicinarono al boccale scuotendo la testa

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Nel frattempo, le guardie si avvicinarono al boccale scuotendo la testa. Erano increduli che non fosse birra. Si chiesero com'era possibile visto che all'interno della caserma non c'era traccia di sidro. In quale momento il ragazzo aveva sostituito il boccale con un altro? Soprattutto: come ci era riuscito visto che non era mai uscito dalla stanza? Andrea però lo sapeva e strinse un pugno della mano. Doppiogiochista di un nobile. Menzognero aristocratico. Faccina muta carattere. Dovevo immaginare che avrebbe usato la magia. Per fortuna è dotato di stupidità altrimenti sarebbe la versione perfezionata di quel moccioso arrogante.

Alle domande che apparivano scolpite sui volti perplessi delle reclute, Brancaleone non fornì alcuna risposta. Tuttavia ci tenne, prima di uscire dalla stanza, a pronunciarne una di fronte al vice capitano. «È stato divertente imitarvi. Mi è quasi dispiaciuto mettere alla luce il vostro tesoretto. Ma sapete anche voi che le regole sono regole e vanno rispettate. La prossima volta che oserete sfidarmi dubito che ci sarà soltanto un esiguo numero di fiaschi confiscati. Conosco tutti i nascondigli di questa caserma» commentò sarcastico per poi aggiungere. «Come ad esempio la botola che è in questa stanza. Se venisse fuori non oso immaginare come reagirà il capitano. Ricordatevi. Oggi sono state le birre. Domani chissà! Passerò forse al vino?» lasciò che la domanda echeggiasse nella stanza ma soprattutto nella mente dell'uomo che rimbombò con la stessa potenza di un terremoto.

 Domani chissà! Passerò forse al vino?» lasciò che la domanda echeggiasse nella stanza ma soprattutto nella mente dell'uomo che rimbombò con la stessa potenza di un terremoto

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Le falcate rapide di Ademaro andarono di pari passo con l'andatura spedita di Brancaleone. «Sei stato abile con la messa in scena, tuttavia non sei stato imparziale. Quel nobile non era affatto un valido candidato, mentre il plebeo aveva tutto il diritto di restare. Sebbene i popolani non possono essere paragonati a noi esistono delle eccezioni. Dei talenti che vanno premiati con un opportuno posto di lavoro» pronunciò il suo punto di vista.

«Io non sono d'accordo. A prescindere da chi siano. Un plebeo rimane pur sempre un plebeo. Lo strato più basso del regno, insignificanti come la loro esistenza perciò non hanno il diritto di ambire ai posti riservati al nostro ceto» pronunciò sprezzante.

«Una parte della tua opinione la condivido. Un plebeo rimarrà sempre un plebeo. Oltretutto non sopporto quando ci mancano di rispetto.»

«Concordo con l'ultima frase» commentò soddisfatto. «A proposito, il passero che hai creato con la magia ha fatto un ottimo lavoro. Sei migliorato con gli incantesimi.»

«Fai silenzio. Vuoi per caso divulgarlo in tutta la scuola?» gli fece presente indicando alcune guardie intente a pattugliare il giardino. Notando che si erano allontanati proseguì a dialogare con lui. «E a proposito della magia. Sarà la prima e ultima volta che te lo dirò. Hai ingannato loro ma non me. So benissimo che hai usato un incantesimo per cambiare il liquido. Ma ti avverto: la legge vale per tutti. Non osare più bere o altrimenti lo informerò.»

«Va bene, va bene non lo farò più. Promesso» balbettò terrorizzato mentre lo vide dirigersi all'interno della scuola.

Non appena il conte entrò nella sua camera, si comportò come di consueto. Si liberò degli stivali scaraventandoli alla sua sinistra. Anche il mantello ebbe una sorte simile. Con un rapido movimento venne slacciato, appallottolato e poi lanciato contro una parete. La spada, invece, tintinnò sulla superficie lignea mentre la giacca venne calpestata senza riguardo. Solo quando si tolse i calzini, il giovane smise di creare una scia di oggetti adagiati sul pavimento. I piedi gli dolevano per la fatica del viaggio e non esitò un solo istante a massaggiarseli. Poi riprese a camminare fino a fermarsi al centro dell'ampia stanza liberandosi della camicia. Si compiacque nel notare che i mobili erano stati lucidati con la cera d'api che inondava di profumo la camera. Il letto a baldacchino, la scrivania in mogano e l'ampio armadio ricolmo di vestiti erano privi di polvere. Ma arricciò le labbra notando che il lungo tappetto rosso che copriva gran parte del pavimento non era stato scosso. Tuttavia era troppo stanco per scendere le scale e ammonire il personale. Ci avrebbe pensato dopo. Ora la sua priorità era un'altra. 

Passò di fronte alle valigie riposte a fianco al comodino e si diresse verso un'altra stanza dell'appartamento. Aprì la porta adiacente al bagno e osservò il salotto. La luce che filtrava attraverso le tende scarlatte erano troppo flebili per permettergli di dare un'occhiata approfondita. Non ci pensò due volte a porvi rimedio. Avanzando con ampie falcate le scostò di lato e spalancò la porta della terrazza. Emersero dalla penombra le pareti affrescate da poco restaurate mentre i raggi mattutini abbagliarono di colpo il pianoforte posizionato al centro della stanza. Ademaro lo sfiorò con la mano girandogli intorno per poi sedersi sullo sgabello. Solo allora tirò un sospiro di sollievo. All'interno di quella stanza poteva essere se stesso e non più un ragazzo autoritario. Premendo i tasti e iniziando a far risuonare una melodia intorno a lui si liberò dello stress che aveva accumulato. Si scrollò di dosso i bisbigli e le occhiate delle guardie che non lo perdevano mai di vista.

Più aumentò la velocità con cui premette i tasti in legno, e più percepì scivolare dalle sue spalle il peso delle regole di un padre intransigente e per nulla remissivo. Norme che fin da bambino gli facevano presente la differenza che c'era tra lui e i popolani. Era un nobile e loro inferiori. La legge lo decretava. Gli insegnamenti dei suoi genitori gli imponevano di tenerlo sempre a mente. Tuttavia li rispettava in quanto erano degli esseri umani come lui. Il fato aveva deciso che loro nascessero plebei e lui un aristocratico. Di conseguenza era convinto che fosse un segno di predestinazione appartenere al ceto più illustre. Si era meritato quella posizione nella società perché nessuno veniva scelto a caso. Essere poveri la considerava una punizione dal cielo. Essere agiati un segno di benevolenza. 

Il destino perciò l'aveva premiato facendolo nascere in una famiglia illustre in quanto lui era più colto, più intelligente e con più qualità rispetto a chi era nato in una famiglia umile. Non c'era nessun altra spiegazione razionale per giustificare come mai uno nascesse povero e un altro benestante. Per un attimo gli vennero in mente le risate della guardia aristocratica espulsa, e il volto solare di Aureliano. Nel rammentare i due uomini si ricordò che entrambi fossero delle eccezioni che facevano scricchiolare le sue convinzioni. L'uno meritava di avere il posto dell'altro. Ciononostante rimase saldo alla sua teoria con la piena convinzione che una spiegazione prima o poi l'avrebbe trovata. Ma non in quel momento perché desiderava svuotare la mente da tutte le responsabilità dei mesi avvenire. Non voleva più pensare a nulla, nemmeno al fatto che un giorno avrebbe preso il posto di suo padre. Una posizione a cui non poteva sfuggire e che anno dopo anno era sempre più vicina.

«Davvero Ademaro può avere voce in capitolo ed essere preso in considerazione dal re?» chiese Aureliano al vice capitano

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«Davvero Ademaro può avere voce in capitolo ed essere preso in considerazione dal re?» chiese Aureliano al vice capitano.

«Eccome!» esclamò Andrea. «Circolano delle voci a riguardo. Pare che suo padre sia un pezzo grosso della capitale, e sia parecchio influente a corte. Tuttavia in questa scuola è solo uno studente del terzo anno. Abbaia tanto ma morde poco.»


La Fenice del vento - Fiore di PeoniaWhere stories live. Discover now