CAPITOLO 142

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Il resto del viaggio proseguì relativamente tranquillo nonostante la tempesta.

Da quando i due soli erano comparsi in cielo, seppure oscurati dalle pesanti nuvole grigie, la pioggia non aveva smesso di cadere per un attimo.

Man mano che ci avvicinavamo alle coste, ancora troppo lontane per essere viste, l'afa diventava asfissiante e i venti bollenti, uniti all'acqua del mare e della pioggia, sembravano creare una cappa di calore attorno ai nostri corpi.

La mia pelle era fastidiosamente appiccicosa.

Eppure queste condizioni meteorologiche non solo non colsero impreparate l'intera ciurma, che invece sembrò rimanere quasi indifferente all'asfissia, ma anzi l'animò ancora di più, probabilmente in vista dell'ancoraggio.

In un vano tentativo di trovare refrigerio, e scampare alla pioggia, mi diressi in sottocoperta. Era più fresca, ma umida, e se non fosse stato per una torcia accesa in prossimità del tavolo con le mappe, sarebbe stata anche buia.

Fu lì che, seduto in un angolo nella penombra, notai Gideon.

«Come stai?» Gli chiesi, avvicinandomi.

La luce della fiaccola gli rendeva il profilo più spigoloso.

Mentre la madre era rimasta quasi tutto il tempo in poppa, con i gomiti appoggiati alla ringhiera e lo sguardo fisso sulle onde, Gideon aveva preferito l'asciutto del sottocoperta, suscitando inevitabilmente la mia preoccupazione.

Sapevo come il mare fosse tossico per i Kelpie, così come sapevo che per raggiungermi aveva dovuto percorrere una grande distanza proprio in quest'ultimo, ma non mi capacitavo di come preferisse stare al coperto, piuttosto che sotto la pioggia, che avrebbe potuto rinvigorirlo.

Già più volte, in passato, avevo avuto modo di notare come Gideon, così esuberante ed impulsivo, tendesse a nascondere le sue emozioni e suoi sentimenti ogni qual volta si trovasse in difficoltà per cui, dentro di me, non riuscivo a non pensare a come quel suo comportamento più che da un malessere fisico fosse dovuto, in realtà, ad un malessere emotivo causato dalle mie parole il giorno precedente.

Alla mia domanda sollevò lo sguardo vacuo dalle assi di legno, accennandomi uno dei ghigni più amari che mai gli avessi visto fare.

Sembrava stanco, ma in realtà era spento, drenato di quella grinta vitale che lo aveva contraddistinto fino a quel momento, con le braccia abbandonate sul grembo e la testa ricurva sul petto.

«Potrebbe andare meglio, ma non posso lamentarmi.» Si passò una mano tra i capelli, allontanandoli dal volto.

Conoscevo quel gesto. Era una delle sue abitudini. Lo faceva ogni qual volta si sentiva nervoso.
Era uno di quei piccoli gesti che avevo imparato a riconoscere, così da riuscire a capirlo nonostante nascondesse i suoi pensieri.

«Ho fatto la mia scelta...»

Mi sedetti al suo fianco.

«...e ora ne accetto le conseguenze.»

Eravamo a pochi centimetri, ma tra di noi sembrava esserci un muro. Un muro che io gli avevo fatto costruire. Un muro che io gli avevo lasciato costruire. Solido e invalicabile.

Avrei voluto dirgli qualcosa, ma sapevo che nessuna parola lo avrebbe consolato.
Avrei voluto fare qualcosa, ma temevo che qualsiasi gesto lo avrebbe fatto sentire a disagio.

«Grazie... per essere venuto.» Mi sembrò l'unica cosa più appropriata da dire, eppure anche ipocrita ed egoista.

«L'ancora!» Si sentì improvvisamente il richiamo all'azione di Dollarus.

Royal Thief IIWhere stories live. Discover now