Capitolo 155 - Epilogo

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«Finalmente hai imparato a non mirare più in basso.»

Il pugnale mi cadde a terra.

No.
Non era possibile.

Sentii un ginocchio cedermi, ma sforzai il mio corpo di mantenere quell'equilibrio precario.

Rimasi lì, immobile, in attesa.

Lo sguardo cercava una presenza in direzione di quel suono, una disperata prova che quella voce non fosse stata solo il frutto della mia immaginazione.

Ma quando fu il silenzio del vuoto a rispondermi, strozzai una risata amara.

Stavo delirando.
Stavo davvero delirando.

Mi voltai, intenta a recuperare la caraffa dalla riva, e il richiamo del sonno aveva già ricominciato a intorpidirmi il cuore, quando i miei occhi, con la loro coda, percepirono un'ombra alle mie spalle.

Mi irrigidii.
La schiena ancora china verso la caraffa.

«Questa volta ho davvero rischiato di lasciarci la pelle.»

Mi girai di scatto, assicurandomi di non battere ciglio.

E fu allora che lo vidi.

Lui era lì.
Era lì per davvero, non un frutto della mia immaginazione.

E mi guardava, con quei suoi due occhi di un verde indimenticabile.

Mi sorrise, nascondendo una smorfia di dolore dietro al palmo della mano che ora toccava un taglio fresco sullo zigomo.
Il taglio che il mio pugnale gli aveva procurato.

Mi raddrizzai, ancora incredula.

«Rubyo...» Lo chiamai, ad alta voce, dopo mesi.

Quel nome si srotolò, sulla mia lingua, con una facilità melodiosa, una nostalgia tremante.

Se quella era un'illusione, volevo che non finisse mai più.

Per un attimo, un attimo ancora, rimanemmo a fissarci, in silenzio, oscillando tra realtà e fantasia.

Era come se ci stessimo riscoprendo per la prima volta.

Ero cresciuta con lui.
L'avevo visto maturare, un bambino diventato uomo, eppure ora sei mesi sembravano aver battuto una vita intera.

Era cambiato.
Quanto era cambiato.
Ma io lo avrei riconosciuto ovunque, e a prescindere dal suo aspetto.

Più alto, più muscoloso, con le guance più incavate.

Era lo stesso, eppure era diverso.

Rubyo.
Il mio Rubyo.

Le ombre che gli annebbiavano lo sguardo, pesandogli sul petto, erano scomparse.
Il viso era più rilassato, gli occhi più luminosi.

Una morsa mi strinse al cuore.
La consapevolezza che allora ero stata davvero io la causa delle sue sofferenze.

«Sei migliorata.» Disse, spostandosi dei capelli lontano dalla fronte.

«G-Grazie.»

Che risposta sciocca.

Come faceva ad essere vivo?
Perché lo credevano morto?
Come mi aveva trovata?

Era questo ciò che avrei voluto realmente dirgli eppure, nonostante la quantità di domande che mi vorticassero nella mente, nessuna trovò voce.

«Ti sono... cresciuti.» Deglutii a fatica, concentrando la mia attenzione sul ciuffo castano che ora gli ricadeva sulle ciglia, solleticandogli le palpebre.

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