Capitolo 1

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Stephanie




Ricordati di respirare.
Sono le parole che ripeto ininterrottamente dentro la mia testa, quando la voce robotica annuncia che l'aereo è quasi pronto per l'atterraggio.
È la parte che meno preferisco del volo. Nonostante sia abituata a viaggiare spesso, percepisco sempre quella strana sensazione alla bocca dello stomaco, come se stessi per schiantarmi al suolo e morire in un nano secondo.
Lancio un'occhiata furtiva a mio padre, accomodato sul sedile al mio fianco e stretto nella solita giacca in pelle, forse troppo sgualcita. Lui non se ne accorge, le sue palpebre sono serrate e le sue orecchie sono occupate dagli auricolari.
È il chitarrista di una famosa rock-band degli anni '90. I Fiveteen. Grande fantasia, dato che prende semplicemente il nome dal numero dei componenti.
Il suo lavoro lo porta spesso lontano da casa, anche per parecchio tempo. Quando eravamo soltanto due bambini, costringeva me e mio fratello Jordan a seguirlo, in tournée. Poi, con l'avanzare della nostra età e l'arrivo dell'adolescenza, ha semplicemente smesso.
Ed è un peccato, perché mi manca passare del tempo con lui.
Sarebbe un padre modello, se non fosse troppo preso dalla sua musica per accorgersi anche delle cose banali.
Tipo suo figlio che ha iniziato ad avere pessimi voti a scuola, a fumare le canne e rientrare a casa ogni notte ubriaco.
Inutile dire che non riesco a stargli dietro e, quando si avvicina per chiedermi di prestargli un po' di deodorante, capisco che ha fumato di nascosto nel bagno.
Gli lancio un'occhiata torva. «Non potevi aspettare che atterrassimo?»
I suoi occhi rossi reggono i miei e la puzza del suo alito mi investe quando ribatte: «Non rompere!»
Sbuffo sonoramente e lo accontento, per evitare di far scaturire un forte litigio, dato che le probabilità che possa accadere sono molto elevate.
Noi ci amiamo alla follia, un amore che va oltre ogni regola, ma questo non ci impedisce di azzuffarci come degli animali selvaggi, senza scrupoli.
Jordan ritorna al suo posto, scelto meticolosamente lontano da noi, mentre io richiamo l'attenzione di mio padre e lo invito ad allacciare la cintura di sicurezza.
Poi afferro la sua mano con forza, stringendo i denti e serrando la mandibola, sperando che tutto vada liscio.

Quando usciamo dall'aeroporto, con le nostre valige tra le mani, mi perdo ad ammirare i fasci di luce che caratterizzano la grande Seattle e ne resto incantata. Non ho molta memoria delle grandi metropoli che ho visitato da bambina, ma una cosa la so: questo posto non ha niente a che vedere con la Boston a cui sono abituata, neanche lontanamente.
Quando finalmente percorriamo la strada verso casa, a bordo di un taxi, il mio pensiero però cambia forma. Il traffico lascia il posto ad un tranquillo quartiere residenziale, i grattacieli vengono sostituiti da graziose villette singole e l'aria pulita riempie i miei polmoni.
Mi sfugge un sorriso, credo che porrebbe quasi piacermi questo posto, più di quanto immaginassi.
D'altro canto, non c'è niente che mi tiene legata alla mia vecchia vita. Amici? Zero. Ragazzi? Neanche per sogno!
Ovviamente, la mia teoria non è affatto condivisa da Jordan, che non fa altro che lamentarsi mentre percorriamo il vialetto di casa.
«Che posto di merda, il nonno non poteva lasciarci, che ne so... solo dei cazzo di soldi in banca?» borbotta.
Sferro una gomitata al suo fianco sinistro. «La smetti di dire tutte queste parolacce?»
Lui si limita a mostrarmi il dito medio, poi corre su per le scale con l'intenzione di scegliere la stanza più spaziosa.
Io rimango al fianco di mio padre, ad osservare ogni dettaglio. Un grande lampadario illumina l'ingresso spazioso ed elegante, mentre un arco separa l'ampia zona soggiorno dalla cucina. Le scale di marmo portano al piano superiore, alle camere da letto e ai servizi igienici. Improvvisamente una porta chiusa attira la mia attenzione e mi avvio senza pensarci due volte. Credo si tratti di uno scantinato, ma quando premo l'indice contro l'interruttore della luce, rimango a bocca aperta.
È una sala relax, a tutti gli effetti. C'è un divano in pelle enorme, un tavolo da biliardo, un televisore a schermo piatto appeso alla parete e perfino un angolo-bar.
«Andrà bene, per noi?» domanda mio padre, cogliendomi di sorpresa e spuntando alle mie spalle.
Annuisco. «Più che bene, non preoccuparti.»
Si lascia sfuggire ad un sospiro. «Ti ambienterai?»
Mi stringo nelle spalle. «Certo, poi c'è Jordan con me, non sarò da sola.»
E, seppur io non creda molto alle mie parole, sembrano convincerlo abbastanza, perché mi lascia da sola e torna al piano di sopra.
Preferisco non esporre i miei timori, sono fatta così. Non sono molto socievole, non voglio legarmi a qualcuno e nemmeno credo di riuscirci. Preferisco la compagnia di un buon libro o di un paio di cuffie, perché loro non possono mai sfiorarmi sul serio. Non possono farmi del male.

Quando finisco di mettere in ordine la mia camera e disfare le valigie, mio fratello apre la porta senza neanche degnarsi di bussare, come un perfetto maleducato.
«È pronta la cena, c'è la pizza» dichiara distrattamente.
Mi acciglio e, lanciando un'occhiata al display del mio cellulare, mi accorgo che sono già passate le dieci di sera.
Il mio stomaco brontola, ma lo ignoro. «Uhm, conserva una fetta, io credo che andrò a prendere una boccata d'aria.»
Lui scrolla le spalle con aria annoiata e se ne va.
Così, dopo aver indossato una tuta comoda e raccolto i miei capelli in uno chignon, mi avvio verso l'uscita. Quando le mie dita sfiorano la maniglia della porta, la voce di mio padre mi costringe a fermarmi.
«Non conosci la zona, Stephanie, perché non rimandi la corsa?»
Alzo gli occhi al soffitto. «È tranquillo, cosa potrebbe mai succedere? Non mi allontano molto.»
Non risponde, perciò mi rendo conto di aver vinto e proseguo con la mia routine.
Amo correre, respirare aria pulita a pieni polmoni e lasciare che il silenzio mi circondi. È un'abitudine a cui non voglio rinunciare, perché riesce a rilassarmi talmente tanto da farmi crollare in un sonno profondo non appena sfioro il materasso.
Così accade qualche ora dopo e finalmente mi lascio rapire dalle uniche braccia confortanti, quelle di Morfeo.

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