Capitolo 35

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Carter







Il sapore metallico del sangue danza sulla mia lingua. La mia guancia interna è tagliata dalla forza con la quale i miei denti l'hanno stretta, tanto è il nervosismo di rivedere mia madre.
Non vado mai a farle visita, nonostante siano permesse due volte alla settimana. Il suo viso angelico, segnato dal dolore della malattia che le divora la mente, ogni volta mi destabilizza. Mi rende irascibile e poco incline alla gentilezza.
All'infermiera di mezza età basta uno sguardo, poi mi chiede di seguirla nell'aria di svago dei pazienti. Si trovano sul terrazzo, alcuni giocano a scacchi, altri fissano un punto nel vuoto, altri ancora ascoltano della musica.
«Hanaise, qualcuno è qui per te» pronuncia, rivolgendosi a mia madre che si trova in disparte, seduta su una panchina, mentre osserva un nido di uccellini canticchiare.
I suoi occhi vagano lenti, fanno fatica a rimanere concentrati a causa degli psicofarmaci, poi si puntano finalmente su di me. Ancora mi riconosce.
I suoi polsi sono fasciati da alcuni strati di garze sterili, i suoi impulsi autolesivi non si sono calmati del tutto. Il medico dice che le sue emozioni e i suoi pensieri sono troppo amplificati, che la sua capacità di regolarli è praticamente nulla.
È un disturbo complicato, che certe volte faccio fatica a comprendere. È conflittuale nei rapporti interpersonali, comporta disregolazione emotiva, sento di vuoto, paura dell'abbandono.
Non riesce a vedere il mondo per quel che è, ne storpia le sembianze. Non riesce a vedere me, per quel che sono.
«Carter, mio figlio» dice. «E mio marito dov'è? Non è venuto?»
Non gliene importa un fico secco della mia presenza qui, il suo pensiero è sempre fisso sull'uomo meraviglioso che crede di aver spostato, che crede ancora di amare, rimuovendo dai suoi ricordi la realtà dei fatti accaduti.
Mi avvicino a lei. «Ci sono solo io, mamma.»
I suoi occhi si incupiscono. «Mi ama ancora?»
E vorrei avere il potere di farla tornare in sé, di guarirla. Vorrei che ricordasse che l'uomo che ha spostato è un serpente velenoso, lo è sempre stato, tra abusi e debiti. Vorrei che ricordasse che è questo il motivo che l'ha spinta a tradirlo, più e più volte, a parte la sua instabilità.
Ma non posso farlo. Non posso salvarla.
«Sì, ma certo» mento.
Un sorriso fa risplendere i suoi lineamenti delicati, perfetti, come quelli di un angelo. «Digli che lo amo anche io e che presto tornerò a casa.»
Annuisco e le stampo un bacio delicato sul dorso della sua mano. Cerco di essere forte, di non far caso ai suoi occhi piccoli e sempre più scavati, alla perdita di peso, alla caduta dei capelli e la ricrescita di quelli bianchi, alle sue ferite, alle rughe di vecchiaia che la portano ogni giorno più lontana da me.
«Ti aspetteremo» mormoro con un filo di voce tremante.
Lei accarezza la mia guancia, con un po' di fatica. «Bel figlio mio, come sei diventato bello...» la sua voce si interrompe, lasciando il posto ad una tosse secca.
Distolgo lo sguardo, perché non voglio che veda i miei occhi troppo lucidi, anche se dubito che ci farebbe caso.
L'infermiera la aiuta a mettersi in piedi, tenendola stretta per un braccio. «È ora di rientrare e riposare un po', Hanaise.»
Mia madre tenta di opporre resistenza, ma finisce subito per arrendersi, debole com'è. Mi concede l'onore di un ultimo sguardo, sempre più perso di quello precedente, poi si allontana.
E il mio cuore si frantuma.

«Come l'hai trovata?» mi domanda Danny, mentre ci accomodiamo attorno al tavolo del Trinity, in attesa degli altri.
Poi alza il dito per attirare l'attenzione di una cameriera e ordina due birre alla spina, che ci vengono servite pochi istanti dopo.
«Uno schifo, come al solito» borbotto imbestialito.
«Mi dispiace, amico» mi dice.
«Anche a me.»
Non aggiunge altro riguardo la faccenda, anche perché gli altri ragazzi fanno il loro ingresso. C'è già poco da dire, figuriamoci se quel poco potrei esporlo davanti ad altre persone.
I miei drammi sono solo miei.
«Siete arrivati da tanto?» chiede Jordan, accomodandosi al mio fianco e colpendomi con una pacca amichevole.
«Dieci minuti» risponde Danny.
Kevin accende una canna già rollata, l'odore dell'erba schiaffeggia le mie narici. Dopo qualche tiro, me la passa.
«Hai sentito che quel coglione di Cook adesso fa coppia fissa con Adeline Ross?»
Danny sbarra gli occhi, puntandoli su Kevin. «E tu come lo sai?»
«Se l'è lasciato scappare Marisa Cooper, mentre giocava con il mio microfono, alla festa di sabato» sorride malizioso. «Ha sentito Keira parlarne con tua sorella» finisce, indicando Jordan con un cenno.
Scrollo le spalle. «Bene, così smetterà di essere ossessionata da me.»
«Ne dubito» osserva Danny. «Magari fa parte di un suo gioco subdolo e cerca solo di farti ingelosire.»
Scoppio a ridere. «Che cazzo dici!»
«Perché no? Le vuoi bene, è stata una persona importante, non negarlo.»
«Chiudi la bocca, Danny.»
Il mio amico alza le mani in segno di resa. «Non ti scaldare, dico solo che c'è sempre stata per te e questo ti piaceva.»
Socchiudo gli occhi. «C'è stata, sì, ma questo non implica che non voglio che esca con un altro. Io non posso darle ciò che cerca.»
Non sono un egoista. Adeline è sempre rimasta al mio fianco, quando ne ho avuto bisogno. È vero.
Le notti insonni passate ad accudire mio padre, a bere cioccolata calda e parlare del niente. Sarò per sempre grato, ha reso qualcuno dei miei momenti meno pesanti del solito.
Questo però le ha permesso di credere che fosse diversa, per me. Che contasse qualcosa, che volessi di più. Ma non è così, non sarò mai pronto per una relazione vera.
Perciò, che vada avanti. È giusto che sia così.
«Chi cerca cosa?» chiede Keira, spuntando alle mie spalle, con la sua solita voce squillante.
«Di certo niente da te, ma tanto da me» la interrompe Vanessa, accomodandosi sulle mie gambe, senza permesso.
Keira le mostra il dito medio. «Puttanella.»
«Ti ringrazio» sorride Vanessa, che non sembra mai che qualcosa possa ferirla.
Il mio sguardo però cade sulla chioma bionda, proprio accanto a quella violacea. Stephanie Dickens mi sta fissando, con quelle meravigliose labbra piene strette tra i denti bianchi.
Quando i nostri occhi si incrociano, si volta di scatto, sicuramente per nascondere quelle straordinarie guance rosee. Poi trascina il suo corpo verso il bancone del bar.
«Scommetto che ti è già venuto duro, pezzo di maiale» bisbiglia Keira al mio orecchio.
Scoppio a ridere. «Al diavolo, stronza!»
«Prima tu!» risponde, per poi dirigersi verso la sua amica e la fonte del mio desiderio.

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