Capitolo 18

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Stephanie





Carter Baysen, nonostante il mio disappunto, è riuscito a convincermi. Le sue parole frullano ininterrottamente nella mia testa, ripetendosi, come in un fastidioso loop senza fine.
Non conosco bene Gabriel e, nonostante mi piacerebbe conoscere le sue intenzioni nei miei riguardi, gli chiedo gentilmente di riaccompagnarmi a casa.
Lui si limita ad annuire prima di azionare i motori ed io, in fondo, provo un po' di delusione.
Non so cosa mi aspettassi, ma di certo non assoluto silenzio durante l'intero tragitto, interrotto soltanto dalle basse note musicali che risuonano nell'abitacolo.
Credo che, quando ti piace davvero qualcuno, faresti di tutto pur di passare qualche altro misero minuto in sua compagnia, no? O forse, semplicemente, ho letto troppi romanzi a lieto fine.
Quando ferma la macchina davanti il vialetto di casa mia, indugio un po'. Lo guardo di sfuggita, forzo un sorriso, mormoro un sottile «beh, allora ci vediamo domani a scuola» e mi allontano con il cuore in gola.
Infilo le chiavi nella serratura, maledicendomi per aver permesso ad un cretino qualunque di rovinare la mia serata. Ma il rumore di uno sportello che sbatte mi costringe a bloccarmi.
Poi arriva la voce di Gabriel alle mie orecchie.
«Steph, aspetta.»
Mi volto lentamente, così da concedergli il tempo di raggiungermi. Il suo corpo e il mio sono separati da una manciata di centimetri insignificanti.
«Tu mi piaci» sputa fuori, con una rapidità tale da costringermi a indietreggiare, finendo con le spalle contro la superficie della porta.
«Oh» riesco soltanto a dire, come una perfetta sciocca.
Una risatina sfugge dalle sue labbra socchiuse. «Oh, già. Mi piaci sul serio. E non voglio che tutto questo si concluda in questo modo...»
Deglutisco, mentre il mio cuore aumenta il ritmo dei battiti, inspiegabilmente. O, in effetti, una spiegazione c'è. Ed è lui, che continua ad avvicinare il suo viso al mio, precipitosamente, senza concedermi possibilità di fuga.
Ma la domanda è: voglio scappare?
Non faccio in tempo a trovare una risposta, perché mi bacia. Mi bacia delicatamente, lentamente, come se volesse godersi il momento, come se non avesse fretta.
La sua mano si posiziona contro la mia guancia, scaldandola. Lo stesso calore che si propaga lentamente più in basso, fino allo stomaco, dove qualcosa esplode.
Perché è il mio primo bacio vero.
Quando ci stacchiamo, mi sento piuttosto impacciata. Ma lui non sembra pensarla allo stesso modo, perché posiziona la fronte contro la mia, pelle contro pelle, e sorride.
«Ora sì, che è una buonanotte» sussurra ad un soffio dalla mia bocca.
Sorrido anch'io. «'Notte.»

Non riesco a dormire. Mi rotolo tra le lenzuola da ore, ormai. Sono così distratta a ripensare a ciò che è successo con Gabriel, da non rendermi nemmeno conto che mio fratello è rincasato, se non fosse per il fatto che decide di bussare alla mia porta.
«Possiamo parlare?» mi chiede, sbucando oltre la soglia.
Alzo gli occhi al cielo e non dico neanche una parola, perché sono arrabbiata con lui e non ho voglia di subirmi una ramanzina sulle mie relazioni interpersonali che, tra l'altro, non lo riguardano.
Jordan sospira. «Mi dispiace, okay?»
«Per cosa ti stai scusando?» ribatto acida, rendendomi conto dell'allusione un attimo dopo, pentendomene e serrando la bocca.
I suoi occhi si sbarrano, le mie parole lo colpiscono tanto forte da costringerlo a fare un passo indietro, mentre il senso di colpa cresce dentro di me.
«Non intendevo...» lascio la frase a metà.
Jordan scuote la testa. «No, va bene, io... buonanotte, Steph. Ti voglio bene.»
Ed esce dalla mia stanza, mentre tutto dentro di me ritorna allo stato iniziale, sgretolandosi lentamente, in mille pezzi.
Sono stata una perfetta stronza, perché non avrei dovuto tirare in ballo quel terribile vecchio episodio. So quanto dolore porta ancora dentro di sé, so che non riesce a superarlo. E adesso, lo so, non ci sono riuscita neanche io.



Un anno prima


«Andiamo, bellezza, resta qui con me. Sono sicuro che ci divertiremo tanto, insieme» sibila la voce del ragazzo, che si lecca esageratamente il labbro inferiore, liberando così tanta saliva che mi disgusta.
Sono gelata, non riesco a muovermi. Il terrore di ciò che può succedere, da un momento all'altro, mi stringe in una morsa. Mi indebolisce.
Le sue mani mi tengono stretta, mi fanno male, sono sporche e non le voglio sentire sul mio corpo. Eppure a lui non importa, continua a vagare sulla mia pelle, con prepotenza, come se fossi soltanto un insignificante oggetto da utilizzare per la sua lussuria. Come se io non avessi scelta, se non quella di lasciarmi usare, per soddisfare il suo meschino piacere.
Mi solleva la maglietta che indosso, stringe il mio seno. Io stringo gli occhi, trattengo le lacrime, ma vorrei soltanto piangere.
Poi mi scaraventa sull'erba che circonda il parco pubblico, incurante del fatto che potrebbe vederci chiunque. E stringo questa speranza, prego che un passante lo fermi, ma non succede.
Il suo corpo sovrasta il mio, le sue ginocchia mi bloccano i movimenti, le sue mani scorrono sulla zip dei miei pantaloni. Un gesto fulmineo e se ne libera, abbassandoli, il giusto necessario per farsi spazio in mezzo alle mie gambe.
È un incubo, qualcosa da cui non riesco a fuggire, a svegliarmi. I suoi baci sono amari, i suoi morsi aprono ferite sulla mia pelle, lasciano i lividi, anche nella mia anima, nel mio cuore.
«Lasciami» riesco a supplicarlo, con un filo di voce.
Ma la sua mano blocca il mio collo, spezza il respiro. Non riesco ad inalare ossigeno, ho paura di perdere i sensi, se continua a stringere in questo modo brutale e privo di umanità.
«Stai zitta» ringhia con cattiveria. «A quel bastardo di fratello che hai piacerà sapere cosa ti ho fatto.»
Sento la punta della sua eccitazione malata premere contro la mia pancia, mentre io mi arrendo, perché so che non posso fare altrimenti. Posso soltanto tentare di ricucire le mie ferite, dopo, sperando di riuscirci.
Ma, ad un tratto, il ragazzo vola lontano da me. Non sento più il suo peso, non sento più il suo corpo, non sento più il suo tocco.
Apro gli occhi e vedo Jordan che lo colpisce in pieno volto, ripetutamente, senza fermarsi, con una rabbia incontrollabile che non cessa. Nemmeno quando il sangue ricopre le sue mani e il ragazzo perde i sensi. Vuole ammazzarlo.
Mi sollevo dolorante, urlo il suo nome, ma lui non riesce a sentirmi. Sono troppo lontana dal mondo in cui si è rinchiuso.
Lo raggiungo, a passo lento, a causa di una storta che ho preso alla caviglia. Poggio la mia mano contro la sua spalla e lui si volta di scatto verso di me, l'ira nei suoi occhi chiari.
«Stephanie» mormora. Poi mi stringe in un abbraccio forte, mi chiede perdono mille volte.
Io, invece, scoppio in un pianto liberatorio, ringraziandolo in silenzio per essere arrivato in tempo per salvarmi.
Non sarei dovuta andare a cercarlo, non avrei dovuto tentare di salvarlo da se stesso, addentrandomi in questa zona pericolosa, piena di piccoli criminali che ce l'hanno con lui.
Perché Jordan si è fatto troppi nemici, gente che vuole sfruttarlo per soldi, a cui non piace l'idea che volti loro le spalle. Hanno provato a ricattarlo, a tenerlo in pugno, e non ha mai funzionato. Perciò sono passati al punto successivo, a me.
«È tutto finito, Steph, andiamo a casa» mormora distrutto.
Lancio un'occhiata al ragazzo rannicchiato su se stesso, di cui non conosco il nome, che respira troppo lentamente, quasi in fin di vita.
«Morirà?» chiedo, temendo che mio fratello abbia commesso un altro sbaglio, che possa pagare per un crimine.
«No, ma anche se fosse, sarebbe un mondo più pulito» dice, con voce fredda.
Poi, mano nella mano, ce ne andiamo via. E non ne parleremo più, fingeremo che questo giorno non sia mai esistito, ma sappiamo entrambi la verità: ha distrutto qualcosa, nel nostro rapporto, che sembra irreparabile.

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