Capitolo 8

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Carter




«La tua sorellina è venuta a farmi visita allo spogliatoio» annuncio, mentre ci accomodiamo attorno alla solita panchina, posizionata sotto la grande quercia.
Jordan solleva le sopracciglia, chiaramente sorpreso dalle mie parole. «E per fare cosa?»
«Magari voleva studiare anatomia» interviene Kevin, sorridendo da sotto i baffetti e meritandosi un'occhiataccia da parte di Jordan.
«Coglione» lo rimprovera Danny, dopo aver leccato la cartina trasparente.
«È troppo curiosa e non va bene» continuo, riportando l'attenzione su di me.
Scruto Jordan in ogni suo movimento, con attenzione. Riesco a capire il linguaggio del corpo, forse fin troppo bene. Dopo tanti anni di esperienza, nonostante la mia età, so fiutare le persone a miglia di distanza.
«Lo so, cercherò di dissuaderla» sospira, scuotendo la testa lentamente.
Incrocio le braccia sulla superficie legnosa. «Mi auguro che tu possa riuscirci, ma qualcosa ti preoccupa o mi sbaglio?»
Jordan allora annuisce, mostrandosi sincero. «È testarda, non lo nego. Ma non farebbe mai la spia.»
«Va bene, è tua sorella, ma come fai ad esserne sicuro? Ha visto tutto e non è poco» ribatte Danny, dando voce ai miei pensieri.
Jordan deglutisce, poi si accende una sigaretta per placare il suo forte nervosismo. «Avrebbe potuto denunciare anche cose peggiori in passato, ma non l'ha fatto.»
Mi acciglio. «Qualcosa di così grave?»
«Sì» ammette.
Non scavo oltre, evidentemente si tratta di qualcosa di molto personale che non vuole esporre. E lo capisco, non sono un ipocrita, perché anche io odio che qualcuno ficchi il naso delle mie questioni.
Perciò stabilisco che posso fidarmi di lui e seguo il mio sesto senso, anche se la maggior parte delle volte è stato proprio questo a fottermi.

Quando faccio ritorno a casa, dopo scuola, percepisco il solito peso sulla bocca dello stomaco. I ricordi custoditi dentro queste quattro mura mi fanno raggelare il sangue nelle vene, ogni giorno. Ma anche se mi piacerebbe cancellarli, so che non posso.
Trovo mio padre steso sul divano, con la bava alla bocca e la solita bottiglia di whisky vuota al suo fianco, fra le sue mani dormienti.
Mi concedo un minuto per osservarlo, lo faccio spesso. Incido nella mia mente il suo viso scarnito, le sue occhiaie scavate e il suo colorito pallido. Perché è così che voglio ricordarlo quando se ne andrà, per il mostro che è, per l'uomo che mi ha donato la vita per poi rovinarla.
Lo odio, con tutto me stesso, eppure non abbastanza da abbandonarlo. Così afferro una coperta e la posiziono sul suo corpo inerme.
Dopo una rapida doccia e una sistemata alla cucina che è ridotta un vero schifo, decido di uscire di casa.
La sua voce, però, mi inchioda sulla soglia.
«Carter? Sei tu figliolo?»
Serro le palpebre per un secondo, poi mi volto a guardarlo. «Cosa vuoi?»
Tossisce gravemente. «Hai dei soldi da prestarmi?»
Stringo le mani in pugni. «No.»
Le sue mani volano contro la sua testa, colpisce le tempie con piccoli pugni, disperato. Punta i suoi occhi rossi dentro i miei. Conosco quello sguardo, ricco di disgusto, come se non fossi degno di esistere a questo mondo.
«Piccolo bastardo ingrato...» sibila.
Succede nel giro di un istante. La sua mano afferra la bottiglia vuota e la scaraventa con violenza contro di me. Riesco a schivarla per un pelo, ma non reagisco. Non emetto neanche un suono.
Gli do le spalle e mi allontano da lui, prima di esplodere e poi pentirmene.
Mentre percorro il vialetto qualcosa attira la mia attenzione, e non sono le urla sommesse di mio padre che provengono dall'interno.
È Adeline Ross, seduta sul portico di casa sua, con le mani in grembo e gli occhi puntati proprio su di me.
«È tutto okay?» domanda dopo un istante di esitazione.
Scrollo le spalle e non rispondo. Non ho voglia di farmi psicanalizzare da lei, non voglio la sua pena. Dovrebbe odiarmi dopo quello che è successo tra di noi, eppure continua ad avere questo atteggiamento fastidioso da crocerossina.
Prima che possa salire sulla mia Jeep, la sua voce torna ad occupare i miei timpani.
«Carter...»
La guardo da sopra la spalla. «Non sono più affari tuoi.»
«Lo so, ma se hai bisogno di parlare...» lascia la frase a metà, non serve concluderla.
So che lei c'è sempre, in un modo o nell'altro. Non impara mai la lezione ed è per questo motivo che non la voglio vicino, non più. Perché io l'ho usata, proprio come faccio con tutte le donne, accantonando i sentimenti e spezzando il loro desiderio di trovare il principe azzurro.
La gente ci nasce con certe qualità, io non le ho. Non mi piace l'amore, non credo nella fedeltà e non ho intenzione di impegnarmi con qualcuno, fare promesse che so di non poter mantenere.
Sono sempre chiaro, con lei però non lo sono stato. Non prima di commettere lo sbaglio.
Le regalo un sorriso forzato, poi afferro il volante tra le dita, chiudo lo sportello e sfreccio via tra l'asfalto fresco.

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