CAPITOLO TRE

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«Adele Russo. Sei davvero tu?»

Adele si bloccò all'istante, paralizzata da quella voce che conosceva così bene: una ventata gelida capace di bruciarle la pelle, paradossalmente più simile alla tramontana che allo scirocco; l'aveva colpita alle spalle, cogliendola impreparata, immobilizzandone i muscoli, bloccandone i pensieri e il respiro.

Sentiva il suo sguardo pungerle la schiena, intrufolarsi sotto gli strati del derma e risalire velocemente la rete nervosa fino ad arrivare al suo centro, all'area in cui si accumulano i ricordi, ed erano davvero tanti quelli che vedevano lui protagonista.

«Adele? Adele? Sei ancora lì?» urlò sua mamma con un acuto dei suoi, riazionando apparentemente le sue funzioni cerebrali.

«Ti chiamo dopo, mamma». Buttò fuori l'aria che aveva imprigionato dopo un

esagerato numero di secondi passati in apnea e si girò lentamente, riponendo il cellulare nella tasca dei jeans.

Era lui, ovviamente, e non appena Adele prese piena consapevolezza di ciò, avvertì le mani iniziare a tremare e l'agitazione crescere a dismisura.

Per tanto tempo aveva immaginato il loro incontro, era qualcosa di inevitabile e lo sapeva bene. Ci aveva perso ore di sonno, fantasticandoci su, costruendosi castelli in cui lei gli lanciava uno sguardo fiero e altezzoso, passandogli accanto con Gianluigi, in cui finalmente sarebbe riuscita a guardarlo negli occhi senza sentire le gambe farsi gelatina.

Aveva previsto tutto: le domande, le risposte, una conversazione indolore e di circostanza, magari davanti a una granita, come due persone mature e civili.

Quello che non aveva programmato, però, era di incontrarlo così presto e così inaspettatamente e sperava vivamente che quel piccolo imprevisto non mandasse in tilt il suo infallibile piano basato su una forse troppo pretenziosa indifferenza.

«Pietro Provenzano. Sì, sono proprio io» affermò, sforzandosi di controllare il tremolio della sua voce, e accennò una specie di sorriso che, però, risultò più simile a una smorfia.

Pietro si infilò le mani nelle tasche posteriori dei suoi jeans scoloriti, strappati in corrispondenza del ginocchio. «Ti trovo bene. Non sei cambiata di una virgola, eccetto i capelli, sono più scuri.»

Adele rimase in silenzio, pensando che forse sarebbe stato meglio rimanere di spalle, fingere di non aver sentito e camminare come se nulla fosse, anche a costo di dover lasciare la porta di casa aperta.

Pietro, intanto, non aveva ancora distolto lo sguardo da lei; una volta Adele gli aveva detto che odiava quel suo modo di guardarla, perché sembrava quasi che riuscisse a leggerle dentro.

Chissà se dopo tutti quegli anni era ancora in grado di farlo, di scavalcare le barriere e intrufolarsi negli spiragli, anche ora che le prime erano state rafforzate e i secondi rattoppati.

«Anche tu stai bene. Ehm... resterei volentieri a parlare, ma come vedi sono molto impegnata» bofonchiò lei alla fine, rivolta al mazzo di chiavi.

Lui rise, mostrando i suoi denti perfettamente bianchi, che illuminavano un viso magro, con le guance leggermente infossate, dai tratti delicati e inconfondibilmente mediterranei.

«Lo vedo. Ti serve per caso una mano?» Si avvicinò di qualche passo, allungando una mano tatuata e afferrò le chiavi.

Adele, presa in contropiede, lo lasciò fare e si ritrovò a fissarlo, come a voler cercare un segno lasciato da tutti quegli anni trascorsi.

In realtà non era cambiato poi molto, però aveva un'aria diversa, più matura, meno spensierata, forse. Aveva fatto crescere la barba e i capelli, che era solito portare molto corti, a volte rasati, ora, invece, erano più lunghi, tirati all'insù in una sorta di ciuffo che gli ricadeva sulla fronte.

Odio le favoleDove le storie prendono vita. Scoprilo ora