Capitolo quarantuno

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📍Monte Santo Spirito (Ag)
30 luglio 2018

-20 giorni


Una tazzina in frantumi, una bestemmia da far inorridire sua madre e le occhiaie di chi ha dormito sì e no dieci minuti scarsi: la sua mattinata non era cominciata nel migliore dei modi. Il rumore dei cocci sulle piastrelle della cucina riecheggiò nella stanza vuota, come un'eco della sera prima, attutendo per un istante il fragore dei suoi pensieri e sovrastando il gorgoglio e gli sbuffi della caffettiera.

«Maledizione, Adele. Non ancora tu» mormorò a denti stretti, infastidito perfino dall'aroma del caffè: quella mattina troppo forte, troppo nauseante.

«Ehi, ma che succede?»

Pietro sollevò lo sguardo: sua sorella Irene era sulla soglia della porta, i capelli ricci tutti arruffati e una sua vecchia maglietta, che lei usava come pigiama e che le arrivava appena sopra il ginocchio.

«Non ti avvicinare, Iré. Ora pulisco tutto.»

Lei rimase immobile e lo osservò raccogliere e buttare i resti di quella che una volta era una tazzina.

«È presto, Iré. Torna a dormire» le disse, prima di togliere dal fuoco la moka, stando attento a non scottarsi. «Ma perché diavolo fa 'sta puzza stamattina?» Sbatté la caffettiera sul ripiano e lo strinse tra le mani, guardando un punto indefinito dritto davanti a lui.

Irene non lo ascoltò nemmeno: si strofinò gli occhi per rimuovere le ultime tracce di sonno e, canticchiando, si diresse verso gli sportelli sopra il lavello, da cui recuperò due tazzine. Le riempì fino a metà di caffè e le poggiò sul tavolo. «Amaro?» domandò in tono neutro, il viso sul palmo, privo di espressione.

Suo fratello la guardò circospetto: probabilmente lo avrebbe fissato con quell'aria stralunata finché lui non avesse ceduto, parlando della sera prima.

Funzionava sempre: lei lo guardava senza dire niente, Pietro dopo un po' si innervosiva e finiva per confessarle tutto ciò che gli passava per la testa; quella volta, però, era diverso, perché forse poteva ancora fingere di averlo solo immaginato, ma dirlo ad alta voce, a sua sorella, comportava ammettere di esserci ricascato di nuovo. E allora: «So cosa stai cercando di fare, ma no, non ho intenzione di parlarne. Non è successo niente e io sto bene. Qualsiasi cosa pensi di aver visto, dimenticatela.»

Lei, impassibile, affondò il cucchiaino nello zucchero di canna, versandosene una generosa quantità nel suo caffè, e prese a mescolare lentamente. «Mamma e papà sono già arrivati a Palermo? A che ora ha la visita mamma?» chiese, picchiettando il cucchiaino sul bordo della tazzina.

Pietro lasciò cadere le braccia lungo i fianchi e scosse la testa. «Smettila di comportarti così. Non funzionerà.»

Irene sorseggiò rumorosamente il caffè e fece una smorfia, concentrata sulla bevanda scura, senza dare segno di averlo sentito. «Sa un po' di bruciato, ma accettabile, dai. Mi passi il telecomando, per favore?»

Pietro sbatté le palpebre: detestava quando Irene faceva così, ma decise comunque di assecondarla. Spinse il telecomando sul tavolo, nella sua direzione, e attese.

«Dubito ci sia qualcosa di decente in tv alle sei del mattino, ma tentar non nuoce» affermò lei per poi iniziare a fare zapping, sempre continuando a canticchiare lo stesso motivetto: una canzone del tizio che una volta faceva parte degli One Direction e di cui Pietro si dimenticava sempre il nome, nonostante sua sorella ne parlasse in continuazione e avesse le pareti della stanza tappezzate dalla sua faccia.

«La smetti di cantare 'sta canzone di merda?»

Irene si bloccò, mise da parte il telecomando e lo guardò malissimo, probabilmente se avesse potuto incenerirlo lo avrebbe fatto. «Prima di tutto "Sign of the times" non è una canzone di merda. Secondo, non parlare mai, mai più male di Harry in mia presenza. Non è di certo colpa sua se nella tua testolina c'è solo un loop eterno di AdeleAdeleAdele».

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