Capitolo 7: Presenza

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In dormiveglia capitava spesso che si udissero i suoni ambientali.
In dormiveglia capitava che non si dormisse realmente bene.
In dormiveglia capitava che la frequenza dei rumori risultasse più intensificata del normale.
Alle sue orecchie giungevano note di ogni genere. Risate. Tante risate. Un certo Gonzalo inveiva contro Hector, insultandogli la famiglia con le parole più volgari che il vocabolario avesse a disposizione; da quello che aveva captato tra un sonnellino e un altro, quel tizio gli aveva fatto il cascamorto con la sua ragazza, una certa Aurelia; era molto conosciuta nel quartiere, tanto che un altro ragazzo, forse l'amico di Gonzalo, di cui però non sapeva il nome, aveva cercato di tranquillizzarlo e gli aveva raccomandato evitare di fare quelle scenate da pellicole spazzatura. Era un dato di fatto che Aurelia fosse popolare, ma per tenersela stretta quell'atteggiamento violento e poco moderato non avrebbe posto delle basi solide al proseguimento della relazione. Che idiozie. Pensò la sua testa. Si voltò dall'altro lato, fronteggiando l'enorme finestra coperta dalle tende bordeaux. Era una fortuna che il condizionatore funzionasse; si stava morendo di caldo dentro la stanza e la serratura che dava al balcone era chiusa, per non dire sigillata. Gli andava bene così. Non aveva neanche disfatto il letto per infilarsi dentro le lenzuola. Non era un amante delle feste, né delle uscite fino a tarda notte; se doveva divertirsi, preferiva farlo in prima serata così da tornare lucido a casa e dormire...Se solo ci fosse riuscito. Eppure non si stava godendo lo splendore delle strade, le luci, il mare, la storia, la cultura, il cibo e le usanze di ciò che aveva attorno. Era gradevole assaporarselo da lontano, da quella stanzetta, da oltre il vetro. L'unico tragitto che compiva fuori da quelle mura era per andare al ristorante al piano di sotto, dopodiché ritornava su, su quel letto, a fissare il soffitto. La sua mente stava combattendo contro l'estremo bisogno di dormire, ma non poteva farne a meno: lo necessitava, dopo notti insonne dominate sempre dallo stesso concetto, sempre dalla stessa frase che passava da un emisfero a un altro senza dargli tregua. Se avesse potuto annullare quelle sensazioni per un solo quattro ore, a sufficienza da fargli recuperare qualche oretta, avrebbe dato tutto; tuttavia non sarebbe stato vigile, il che gli avrebbe fatto rimangiare la scelta di averlo fatto. Non era mai stato un tipo paranoico, mai. Era conosciuto per essere il più pazzo, il più esuberante che i suoi compagni avessero mai conosciuto; l'ottimismo era la sua migliore arma, il suo migliore amico. Vedere il bicchiere mezzo pieno. Non piangere sul latte versato. Fare buon viso a cattivo gioco. Detti. Giusto. Concetti che lo avevano aiutato a guardare sempre dritto. Concetti che adesso non servivano a nulla. Non era più un ragazzino; non era più lo scapestrato che i suoi amici avevano conosciuto. Non li aveva più contattati; aveva promesso loro che si sarebbe fatto vivo, ma si era limitato a vivere nell'ombra, a fare qualche uscita con i vecchi compagni del liceo, e a scappare.
Oh. Gonzalo stava litigando di nuovo. Era sempre Hector il problema? Non gli conveniva alimentare la tensione nell'aria; non ci voleva molto a trasformare una piccola rissa da strada in una tragedia. I giovani di oggi erano imprevedibili; un attimo prima si scherzava, si rideva e si festeggiava. Poi...partivano i colpi.
Colpi forti.
Come gli spari.
Un forte boato lo costrinse a spalancare gli occhi.
Balzò seduto sul materasso, voltandosi in direzione del comodino.
Spari. Spari. Spari.
Aveva sentito degli spari.
Quelli erano degli spari.
Non aveva potuto confonderli. Li conosceva fin troppo bene.
Ghermì la pistola accanto alle piastrine sul comodino. La sicura era già stata tolta prima di andare a letto, perciò non ci pensò due volte a puntarla verso la finestra. Un fascio di luna piena filtrò oltre la fessura delle tende, colpendogli soavemente il viso per mostrare un volto trentenne, imperlato di sudore e trasfigurato dalla paura, un terrore che aveva tinto gli occhi azzurri in un alone di ansia, di quanto fossero lucidi. Le spalle pronunciate facevano su e giù per il fiatone che si era impossessato del suo corpo, la canotta imbrattata, attillata sul petto scattante; i capelli scompigliati si erano appicciati in fronte, fradici. Si era fatto la doccia, ma non si era curato di asciugarli, e il sudore non aveva facilitato le cose.
Tuttavia quel suono era sparito. Quel continuo rimbombo costante e frastornante era sparito. No. Era ancora lì, ma non era della stessa intensità con la quale i suoi timpani lo avevano percepito. Era tenue, come le urla di quel maldetto Gonzalo, pervaso da una risata fragorosa e accesa. Poté approssimare una sessantina di metri di distanza da quel gruppetto di ubriaconi, mentre il boato che aveva oppresso la sua gabbia toracica con un ritmo cardiaco incalzante non era stato nient'altro che un fuoco d'artificio. Un caleidoscopio di colori tinse il suo pallore; erano fuochi d'artificio. Solo fuochi d'artificio...? La pistola, tremante nella sua mano instabile, si abbassò lentamente fino a coricarsi sulla coscia. Erano solo fuochi d'artificio. Eppure giurava di averli sentiti così vicini che aveva pensato che qualcuno avesse sparato alle serrature per buttarle giù. La magia del dormiveglia; era così vicino a sfiorare il sonno che il più piccolo suono gli era sembrato triplicato. Si passò una mano sul viso, notandone il sudore, specialmente una goccia rigargli lo zigomo barbuto. Si mise seduto ai bordi del materasso, infilò la pistola dietro la schiena, in mezzo all'elastico dei pantaloncini, e si alzò per dirigersi al bagno. Opposta alla disinvoltura di chi si era semplicemente svegliato nel cuore della notte per andare a rinfrescarsi, la sua camminata non mostrava alcunché di pigro, bensì un fare rigido, teso, di un soldato in servizio, in procinto di essere attaccato da un momento all'altro. Eppure lui si era allontanato da quella vita proprio per non avere più quella sensazione. Ciò che si era portato dietro, tuttavia, non era stato del tutto smaltito. Si era illuso di poter ritornare alla sua vita di sempre; si era illuso di poter apparire normale davanti a tutti gli altri. Quanto si era sbagliato. Le persone avevano paura di lui, e lui paura di loro. Di chiunque lo circondasse. Gli sembrava di essere sul campo di battaglia, di essere in mezzo alla terra a strisciare per evitare le mine, a correre per fuggire dall'esplosione, a urlare per dire agli altri di andare al riparo. Era come se non avesse mai abbandonato quell'incubo di morte. Accese la lampadina dello specchio ed aprì il rubinetto, sciacquandosi il volto con un getto ghiacciato. Non doveva dormire. Doveva svegliarsi assolutamente. Potevano arrivare da un momento all'altro. Potevano coglierlo di sorpresa quando meno se l'aspettasse. Abbassare la guardia non era un'opzione; doveva rimanere quanto più vigile possibile e avere la pistola a portata di mano. Chiuse il rubinetto e si guardò allo specchio. Dov'erano finiti i bei tempi? Dov'erano finite le sue onorificenze? Erano un ricordo lontano che lo avevano definito fino ai trent'anni. Dopodiché che cosa era successo? Bella domanda. Una missione finita male aveva il grande potere di mandare tutto a puttane.
Il giorno prima sei un eroe; il giorno dopo un caduto.
E quello dopo ancora?
Sei solo un sopravvissuto.
Un pazzo.
Una figura da ammirare?
Io non ho niente da ammirare. Disse una voce dentro la sua testa. Non ho niente di cui vantarmi. Riecheggiò ancora. Non ho niente di cui parlare. Afferrò il lavandino con entrambe le mani, schiena curva e sguardo devastato. Ho solo rimpianti. Il rimpianto di averlo fatto. Di non averlo fatto.
La vita da soldato non era mai stata la sua strada. Perché diavolo si era convinto che fosse giusto, non lo sapeva nemmeno lui. E quando se n'era reso conto, era già troppo tardi. Aveva perso. E proprio perché aveva perso, adesso il diavolo bramava di venire da lui, a trascinarlo all'inferno.
Aveva sempre saputo che non sarebbe stato accolto in paradiso, ma non immaginava che la sua fine sarebbe arrivata così presto, e per giunta senza preavviso. Tranquillo, nella sua dimora, isolato, affinché nessuno dei suoi parenti, dei suoi familiari e dei suoi amici potessero controllare delle sue condizioni, obbligandolo ad andare dallo psicologo, o a partecipare a quelle dannate sedute con altri commilitoni colpiti dal trauma, dalla disperazione che avevano vissuto in quegli anni dove si erano spacciati per eroi inetti e incapaci, era stato colto da una presenza indefinibile. Aveva provato ad ignorarla, a fare finta che non esistesse, che non fosse reale, che fosse frutto della sua mente che voleva giocargli brutti scherzi a causa delle fiamme, delle esplosioni, dei morti, del sangue, degli arti che volavano via, che gli avevano offuscato totalmente la ragione; aveva tentato, finché non era entrata nella sua mente, prendendo il sopravvento.
Ti sto osservando. Diceva.
Non puoi nasconderti. Ripeteva.
Solo perché nessuno dei tuoi cari riesce a trovarti, non significa che io non possa farlo. Aveva continuato.
È inutile che fai finta. Proseguì nel subconscio.
E fu all'ennesima che la paura lo azzannò con i suoi artigli.
Io ti sto osservando, Kevin Carter. Ti vedo, anche adesso.
La frequenza del respiro aumentò a dismisura. La figura riflessa nello specchio divenne distorta, irriconoscibile.
Quello non era lui.
Quello non era lui.
Quello non era lui.
O forse sì?
Kevin, eri un soldato. Tu sei questo ormai. Lo porti nel sangue e nel corpo.

Lui non voleva essere un soldato. Non avrebbe mai voluto seguire le orme di suo padre solamente per renderlo orgoglioso. Era stato un codardo che non aveva voluto affrontare la realtà. Non aveva avuto il coraggio di dire a suo padre di voler proseguire gli studi, di voler diventare ingegnere. Aveva sbagliato. E adesso era lì, in preda a qualcosa che non aveva un nome, che non poteva accostare a niente se non agli errori che aveva commesso quando in quelle maledette piastrine era stato inciso il suo nome; avrebbe dovuto saperlo che non si poteva più ritornare alla vita di un tempo. Non era mai stato portato per quella strada; come potevano i suoi compagni andare ancora avanti? Come potevano premere il grilletto ripetutamente, senza sognare i volti delle persone che freddavano?
Digrignò i denti dalla disperazione.
Io ti sto osservando.
Perché? Cosa voleva da lui? Cosa aveva fatto? Perché proprio lui? Sapeva che era un soldato? Sapeva dei peccati che aveva commesso? Cosa aveva fatto di male per meritarsi una vita di inferno?
Io ti sto osservando.
Ti sto osservando.
Era ritornato al campo di battaglia. Era di nuovo in divisa, in mezzo ai suoi compagni. Le fiamme li stavano divorando, passo dopo passo.
Fuggire era inutile.
Era in trappola.
Urlò, afferrando la pistola per puntarla alla tempia.
Il dito era a pochi centimetri dal grilletto.
Lo sfiorò e...
Qualcuno bussò alla porta.
Kevin sbatté le palpebre, ritornando in sé.
Una voce femminile gli chiese se la situazione fosse sotto controllo.
Abbassò la pistola, rendendosi conto di quello che stava per fare; la lasciò andare dentro il lavandino, come se spaventato da essa, allontanandosi disperato. Si appoggiò allo stipite della porta, una mano sulle tempie e lo sguardo fisso sul pavimento.
Cosa gli era saltato per la testa?

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Angolo autrice:

Oggi un capitolo un po' più corto, ma pieno di introspettiva psicologica. Sono sicura che alcuni di voi rimarranno delusi della non presenza di Noah e Dave, ma credetemi: c'è un motivo dietro questo capitolo e il momento di debolezza del povero Kevin Carter. Nulla è lasciato al caso, amici miei!
Ci vediamo martedì prossimo! 

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