Capitolo 50: Dimitri Malokov

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Aveva bisbigliato il suo nome.
Aveva appena emesso quell'unica sillaba.
Nelle sue orecchie i rumori della guerra erano cessati, il bruciore al viso un miraggio che qualunque essere umano non avrebbe tralasciato per mettere al primo posto l'incolumità e il valore dei suoi compagni, della sua squadra, dei suoi più veri e fidati amici. La sua guancia destra era pervasa da un calore insopportabile, irrevocabilmente risolvibile da una semplice siringa di adrenalina; il freddo glaciale del Oceano Indiano era stato soppiantato dal fuoco delle fiamme che divampavano attorno a loro, dal sangue della sua faccia che usciva lento e denso come la lava incandescente di un vulcano, un'eruzione metodica e distruttiva che, nonostante non fosse rapida come un fulmine, o devastante e disordinata come un tornado, avrebbe portato via con sé ogni cosa, sommergendo con il suo calore la strada e donando un conforto letale a chiunque si sarebbe lasciato abbracciare da quell'ondata di agonia. Metà del viso era diventata insensibile, se non vittima del dolore, tuttavia i suoi occhi videro perfettamente le condizioni di quel corpo, il modo con la quale si era buttato senza ripensamento sopra di lui per proteggerlo da una granata che avrebbe dovuto prendersi la sua vita e risparmiare quella dei suoi commilitoni; nella mano sinistra era ancora presente ciò che rimaneva di quel braccio, di quel braccio che era stato staccato a causa della deflagrazione dal corpo, carbonizzato e ricoperto di sangue. Seppur le urla, gli spari, le granate, lo strazio, i pianti, e le onde del mare, i suoi timpani sentivano la sua voce. La sentivano vivida, come se stesse parlando con lui ancora adesso.
Sentiva la voce di Max.
Sentiva la sua titubanza, il suo rammarico, la sua trepidazione nel tornare a casa e poter assistere al parto della moglie, alla sua primogenita venire al mondo dopo anni di relazione e di matrimonio. Un eco vicino gli bisbigliò qualcosa all'orecchio; pigolii, gemiti, singhiozzi travolti dalla disperazione, affranti e distrutti. Erano le lacrime della donna, il suo dolore, l'averle strappato ingiustamente l'uomo della sua vita senza che avessero fatto qualcosa per poter ricevere una tale punizione dal cielo. Cosa avevano fatto di male per meritarsi ciò? Cosa aveva fatto di male Igor per essere la prima vittima di quella carneficina? Cosa aveva fatto di male Max per essere la seconda vittima di quell'insania? Perché si era buttato sopra di lui per fargli da scudo umano, se aveva una famiglia a casa che lo aspettava? Come aveva potuto mettere in secondo piano la sua vita, il vuoto di una bambina che, una volta raggiunta l'età adatta per pensare lucidamente a che fine avesse fatto il padre, le sarebbe stata raccontata una vicissitudine inutile, convenevoli solenni che le rammentassero quanto era stato eroico il suo gesto? I lineamenti di Max erano diventati irriconoscibili, trasfigurati dalle ustioni, dal sangue, dai detriti che lo avevano quasi ridotto in mille pezzi; le braccia si interrompevano poco prima del gomito, la gamba totalmente assente. Proprio in quei punti era uscita una quantità industriale di sangue che aveva ridotto ad una pozza densa e carminio il pavimento in metallo della fregata; la dolcezza della sua espressione era stata corrotta dalla pelle quasi sciolta e dai muscoli che potevano intravedersi in coincidenza della mascella a sinistra. Dagli occhi chiusi, sembrava avesse accettato il suo destino, accogliendo la morte a braccia aperte. Eppure quella sua scelta, lui, non riuscì a tollerarla, a mandarla giù con la freddezza che gli era stata insegnata quando aveva intrapreso quel viaggio negli Spetsnaz e aveva rinnegato tutte le emozioni che avrebbero potuto inibire il suo operato e ogni sua cinica e atroce scelta; il suo cuore stava battendo ad un ritmo a lui sconosciuto, in una frequenza che neanche la più lunga delle apnee avrebbe potuto ridurre al minimo. Non riusciva a respirare. La sua bocca era ostruita da qualcosa che gli impediva di riprendere fiato correttamente. Il problema non era l'atmosfera, l'aria rarefatta e contaminata dalla polvere da sparo, dalla benzina, dall'alcol. No. Il problema proveniva dal passamontagna che gli ostruiva le labbra aperte e private dalla capacità di poter inalare quanto più ossigeno possibile; le mani arrivarono a pochi centimetri dall'indumento, in quel punto, immobili eppure tremanti. Doveva toglierlo. Non gli importava se il tessuto fosse in parte fuso con la pelle. Doveva toglierlo. Qualcuno lo chiamò, dicendogli di non farlo. Ma lui lo ignorò. Lo ghermì con frenesia e lo tolse di netto, squarciando la gola con un urlo di puro strazio.
In mezzo ad esso, il suo nome venne chiamato di nuovo.
Ancora.
E ancora.
Finché due mani si posarono sulle sue spalle e lo indussero ad incrociarci con chi, insieme a lui, aveva tolto il passamontagna per avere un confronto diretto. Era lui, era il suo migliore amico; anch'egli dalle iridi azzurre, rosee e decorate da un riflesso vitreo che non fu causa del troppo fumo, voleva che lo guardasse.

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