Capitolo 19: In mezzo alla folla...

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Non c'erano.
Non c'erano.
Non c'erano.
Non c'erano.
Questa frase stava martellando assiduamente dentro la sua testa come un martello pneumatico, assillante, ripetitivo, veloce, scattante, proprio come l'andamento del suo cuore, troppo spedito da trapanargli il cranio con rimbombi lancinanti. Il suono della folla, eppure, stava sovrastando quel tormento con uno stridio peggiore delle urla del suo cervello; lo stavano fissando confusi, interdetti nell'aver visto letteralmente un giovane cadere da un tetto per piombare in un tendone, il quale aveva per fortuna attutito la caduta, senza recargli alcun danno. Tuttavia qualcosa dentro il suo corpo era scattato, invadendolo con un'onda allarmante che aveva indotto il suo corpo in una stasi macabra, da spaventare i presenti. Qualcuno voleva avvicinarsi, provare a chiedergli se quantomeno non fosse ferito, scosso o annichilito dal capitombolo, altri stavano proseguendo senza curarsi di lui, mentre il proprietario di quella bancarella che lui aveva completamente distrutto con il suo peso, stava urlando frasi in spagnolo che faticava a comprendere, tantomeno udire. Suoni frastornanti, erano quelli. Ma ovattati, piatti, come se si ritrovasse in una cupola di vetro appannata, in procinto di spaccarsi da un momento all'altro. Gli occhi grigi erano sgranati dallo shock, le mani ancorate alla felpa, ad accartocciare il tessuto sino a graffiare la pelle sotto di esso, sebbene non avesse le unghie lunghe; di nuovo incominciò a tastare ogni parte del suo corpo, le tasche dei jeans, il cappuccio, l'interno della cerniera, lo zainetto con tutti i documenti che aveva racimolato dentro la stanza dell'ormai defunto Kevin. Ma non c'erano. Esatto. Le cuffie. Le cuffie...non c'erano. Le aveva perse. Sicuramente gli erano volate via quando era scappato dalla finestra, o forse durante la corsa sui tetti, o peggio ancora durante la caduta. Dovevano trovarsi sperdute da qualche parte, abbandonate e calpestate dai piedi di quegli stessi passanti che lo stavano ignorando. Convulsamente non si arrese; continuò la sua ricerca disperata, percependo la frequenza del respiro aumentare a dismisura, costringendolo ad aprire la bocca, dalla quale scapparono dei gemiti di puro terrore. Come aveva fatto a perderle? Come aveva fatto ad abbassare la guardia e perdere ciò che più lo aiutava a stare all'aperto? Per quale motivo aveva deciso di mettersi a correre come un idiota sui tetti per raggiungere Dave? Dov'era adesso, Dave? Aveva beccato l'assassino? Lo aveva fermato? Dove poteva essere andato?
Una signora si abbassò verso di lui, porgendogli la mano.
Pronunciò qualcosa in spagnolo, qualcosa che non comprese, non solo per la lingua sconosciuta, bensì per il fischio prolungato che aveva invaso le sue orecchie.
Solo un pensiero balenò nella sua testa, non appena quel viso si palesò davanti alla sua vista distorta da una sfocatura opprimente.
Voleva fargli del male.
Chi lo stava guardando, voleva fargli del male.
Così Noah spinse via la mano di quella donna, balzando in piedi per indietreggiare spaurito. Anche le persone si distanziarono con stupore, e ciò lo destabilizzò ulteriormente; cosa aveva che non andava? Cosa volevano da lui? Doveva andare via da lì. Dovevano dimenticarsi di lui. Le gambe gli tremavano; riusciva a malapena reggersi in piedi. Tuttavia quel singolo desiderio gli permise di scattare in una camminata spedita; alzò immediatamente il cappuccio e curvò la schiena in avanti, dando le spalle a quell'ammasso di sagome inumane che non avevano intenzione di lasciarlo in pace. Con le mani entrambe sul petto, in coincidenza del cuore scalpitante, si fece strada in quel maledetto mercato, evitando che lo sguardo si posasse su una di quelle creature; il respiro usciva scattante dalle sue narici, gli occhi non facevano altro che perdersi nelle sue scarpe, nel modo con cui esse scalciavano contro il pavimento ondeggiante. Ogni cosa si stava ammassando, stava perdendo la concezione della realtà. Perché aveva deciso di seguire Dave all'esterno? Perché lo aveva seguito fino all'hotel in cui alloggiava Kevin?
Odiava uscire. Non lo faceva quasi mai, neppure ai tempi in cui viveva in un insulso monolocale e doveva darsi da fare da solo; ordinava online e si faceva portare tutto a casa sua, senza muovere un muscolo. Fare la spesa, comprare nuovi vestiti, andare a lezione: non faceva nulla di tutto ciò. Di quanto fosse intelligente, si presentava solamente al momento dell'esame e lo passava a pieni voti senza aver seguito una lezione; non usciva, quindi non gli servivano vestiti nuovi se a casa usava sempre la tuta, comoda e classica; cucinare non era il suo forte e, di quanto fosse pigro e dedito ai videogiochi, gli scocciava sporcare pentole e piatti, consapevole di preparare roba altamente non commestibile: sushi, fast food, cinese, tailandese e indiano, erano i cibi che a turno passavano per il suo stomaco. A volte, quando non gli andava nessuno di quelli, usciva nelle ore in cui era sicuro di non incontrare troppa gente al supermercato, scegliendo quello meno frequentato. Non era mai stato un amante delle grandi metropoli e forse aveva sbagliato a rimanere a Washington anche dopo la laurea; non l'aveva festeggiata, bensì aveva ricevuto il tanto e agognato pezzo di carta per poi tornare a casa, come se non fosse accaduto niente. Per il lavoro che aveva condotto, lo avevano chiamato solo al momento del bisogno; sapeva guidare il motorino, non doveva passare il rischio di usare mezzi di trasporto pubblici. Invece era rimasto lì e si era pure beccato un posto come agente della CIA. Lo avevano assecondato nel concedergli un ufficio tutto suo, lontano dagli altri per avere più spazio per sé stesso e il silenzio richiesto per concentrarsi, sebbene usasse le cuffie ventiquattro ore su ventiquattro.
Ecco... Non in quel momento, però.
Odiava la gente.
Odiava le città dinamiche e in costante movimento.
Odiava quando nei marciapiedi non si poteva camminare liberamente.
La gente camminava come un fiume in piena; parlava, urlava e sghignazzava senza potergli far udire le parole di senso compiuto per orientarsi e tentare di riprendere il comando della situazione; l'ambiente circostante era ovattato, completamente fuori dagli schemi. Se n'era accorto: era come se stesse indossando le cuffie, eppure le sue orecchie erano libere, libere di udire nitidamente i suoni, senza la musica che li sopprimesse.
Tutto era offuscato, appannato.
Azzardò a sollevare il capo per capire dove accidenti stesse andando, ma gli arrivò una spallata da parte di una donna al telefono. Questa lo ignorò, proseguendo la sua camminata veloce. Si sbilanciò, ma non volle perdere il passo. Collise con la spalla di un uomo dall'altro lato.
Poi con un altro.
E con un altro ancora.
Tutte le voci, tutte le parole delle persone, il continuo brusio, il mormorio, le urla, i clacson delle auto bloccate nel traffico, tutto stava rimbombando nella sua testa, tamburellando assiduamente senza pietà. Gli stava venendo il mal di testa.
Le tempie pulsavano.
Il battito cardiaco aumentava a dismisura, accostandosi a tutti quei suoni.
Il respiro si fece repentino.
Gli occhi grigi iniziarono a saettare ovunque, non riuscendo più a focalizzarsi su qualcosa.
Erano troppi.
Erano troppi, maledizione.
Aveva bisogno delle cuffie.
No.
Sarebbe dovuto rimanere su quel cazzo di tetto.
Non stava capendo nulla.
Gli occhi si spalancarono terrorizzati.
Una sagoma entrò nel suo campo visivo, non appena innalzò lo sguardo dopo aver sbattuto contro l'ennesima persona indaffarata. C'era qualcuno in mezzo alla strada; si stava avvicinando pericolosamente a lui. Lo aveva preso di mira. Fece qualche passo indietro, esitante. Non voleva più stare lì. Tuttavia era in trappola. Eppure voleva solo...
Voleva...
Voleva...

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