1. Il permesso

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Il battito di ali di una farfalla può causare un uragano dall'altra parte del mondo.

Teoria del caos


Emma

Quando aprii l'armadio, capii che Shinhai aveva sempre avuto ragione.

Il mio guardaroba sembrava essere stato vomitato da un unicorno schizofrenico. Parole sue, non mie...

Il tripudio di colori tenui e dall'aspetto morbido sistemati in ordine cromatico mi rendeva consapevole che ero dipendente dai colori pastello.

Il verde smeraldo, il turchese, il rosso pastello, l'azzurro pietra di fiume, l'ametista, il carota, il rosa cipria, il giallo limone, il nuvola e il lilla davano l'idea che la vita della ragazza proprietaria di quell'armadio fosse sfumata delle migliori tinte primaverili.

Io vivevo in una tinta primaverile perenne.

Praticamente, quello che la vita mi aveva tolto io me l'ero ripreso e sfogavo la sua assenza nel mio guardaroba, organizzato secondo i principi dell'ordine e dell'armonia.

Mi piaceva vivere e mi piaceva ancora di più farlo armandomi di felicità cromatica. Così la chiamavo.

Nonostante fossi nata nella soleggiata California del sud, la mia vita sin dalla nascita era stata ben lontana da quelle tinte calde che caratterizzano i paesaggi di queste parti anche in pieno inverno.

Il colore da cui ero stata circondata per i primi anni della mia vita era stato il bianco: bianco tristezza, bianco morte, bianco vita, bianco ospedale...

Non era una metafora, era un dato di fatto.

Ricordavo che non mi piaceva, che l'odiavo, perché tutto lì era bianco: le lenzuola, i muri, gli arredi, i camici dei medici, i bendaggi che mi fasciavano le braccia e le gambe. Ricordavo che l'unica macchia che interrompeva quella monocromia in cui ero immersa era il rosa del mio pigiama.

Ricordavo mio padre che si era seduto vicino a me, mentre mia madre era intenta a parlare con i medici.

Ricordavo che mi aveva chiesto perché fossi così triste e io gli avevo risposto che quel colore non mi piaceva, perché era triste come quel posto e tutte le persone che ne facevano parte.

Avevo circa cinque anni, gli occhi grigi persi nel vuoto, le labbra serrate e la nostalgia per un'infanzia che mi avevano promesso sarebbe iniziata presto.

Ricordavo il muro bianco di fronte a me, le mani intrecciate in grembo, un peluche abbandonato ai piedi del letto e i cartoni animati in sottofondo.

Ricordavo che mio padre mi aveva sorriso, come faceva sempre, domandandomi se conoscessi la storia di Bianco Colore, il color non colore.

Forse avevo strabuzzato gli occhi e un accenno di sorriso aveva curvato gli angoli della mia bocca. Forse avevo scrollato la testa e portato le ginocchia al petto, pronta ad ascoltare quella storia che con il crescere non sarei più riuscita a ricordare.

Ricordavo solo che da quel giorno il bianco diventò per me la prova inconfutabile che la magia esiste - ma solo se si è disposti a crederci - perché il bianco che odiavo tanto conteneva in realtà tutti i colori, sebbene ne fosse privo.

Non ero, quindi, circondata da bianco ma da colore, da tutti i colori esistenti e immaginabili.

Iniziai a scorgere in quelle mura bianche l'opportunità che solo una tela acromatica è disposta a offrirti, come la possibilità di dipingerla con le migliori tinte sul mercato: quelle dell'amore sconfinato delle persone che conoscevo, dei sorrisi strappati anche ai vicini di letto più scontrosi, delle storie sussurrate tra i sospiri di chi avrebbe voluto viverle sulla propria pelle.

Come le ali di una farfallaWhere stories live. Discover now