8. La panchina

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Emma

Lo guardai allontanarsi finché girò l'angolo oltre il cancello di entrata dell'ospedale. Non si era voltato neanche mezza volta e poi era sparito.

La voce di Nathan mi riportò alla realtà. Una realtà in cui ero ancora seduta sulla panchina. La stessa panchina su cui ero stata seduta con Ollie per più di un'ora. Solo che ora, al posto suo, c'era Nathan.

«Non dirmi che è lui l'Ollie di cui parli sempre». Il sarcasmo nella sua voce non mi scalfì.

Anche perché dovevo ancora riprendermi dall'esperienza di averlo avuto seduto accanto a me per tutto quel tempo. Chissà se si era accorto che avevo cercato di toccarlo per tutto il tempo...

«È lui!». Ammisi trionfante.

Nathan si stravaccò sulla panchina, allargando le gambe e poggiando i gomiti sulla spalliera. «Sembra appena uscito di prigione».

«Non è vero. Mi piace. Non posso farci niente».

«Se tua madre lo sapesse, ti spedirebbe in collegio».

«Per questo non deve saperlo. Nat, promettilo». Gli strattonai il braccio avvolto nella stoffa costosa della sua camicia bianca.

«Non faccio promesse che non posso mantenere!»

Serrai la presa intorno al muscolo del suo braccio. «Ti prego». Piagnucolai. «Mia madre deve saperlo solo quando ci sposeremo. Cosa che non accadrà mai perché non gli piacerò mai!».

«Eppure era qui seduto sulla panchina con te».

«Perché si sente in colpa».

«Già... io ti avrei già fatto la proposta, se ti avessi reso cieca a un occhio».

Liberai la mano dalla sua presa per assestargli una leggera pacca sul bicipite e Nathan cominciò a ridere sprigionando tutta la bellezza di cui era capace.

A dodici anni, mi vantavo con le poche amiche che avevo che Nathan fosse il mio ragazzo. Non ci credevano, quelle perfide, e facevano bene perché non era la verità, ovviamente. Ma lui era bellissimo, popolare già al primo anno di liceo e mi teneva il gioco.

Non scorderò mai la soddisfazione che provai nell'entrare in gelateria con il suo braccio a cingermi le spalle. Poi si fidanzò con una cheerleader e io dovetti annunciare la nostra rottura.

Eravamo fratelli, non di sangue, ma il legame che ci univa era anche più forte.

«Non è il tuo tipo, Emma».

Incrociai le braccia offesa, anche se era la verità quella che non volevo ascoltare.

Ollie si vedeva con una delle migliori amiche di Beatrice, una bionda naturale con gli occhi da cerbiatta di un colore spettacolare, verde smeraldo, lontano anni luce dal grigio topo dei miei. Non avrei mai potuto competere.

«Inoltre ha brutti giri». Aggiunse, sistemandosi i ricci ribelli che gli ricadevano sulla fronte.

Adoravo i suoi capelli e a quanto pare anche la maggior parte della popolazione femminile che faceva davvero fatica a resistergli. I suoi boccoli castani erano perfetti, come quelli di Tamara, e di una sfumatura di marrone leggermente più scura di quella della sua pelle.

«Cioè?».

Nathan sospirò prima di guardarmi serio. «Il tizio che ti ha dato il pugno in faccia è appena uscito di prigione. È stato dentro per quattro anni: aggressione a pubblico ufficiale. Ha spedito quel poliziotto in prognosi riservata. E Ollie era là con lui».

Sospesi il mio sguardo nel vuoto, intenta a riflettere. «Sì, ma stavano litigando alla festa. Magari non sono più amici». Convenni, infine, scrollando le spalle.

«Perché devi sempre vedere il lato positivo? Sei finita qua a causa loro!».

«No, sono finita qua a causa mia».

Nathan scosse la testa contrariato. «Fa' come vuoi. Tanto fai sempre come ti pare».

Annuii soddisfatta. «Quindi, secondo te, non ho proprio possibilità?».

Nathan aggrottò la fronte. «Hai visto la tizia che si scopa?».

Abbassai gli occhi. «Sì, è uno schianto. Ma non stanno insieme. Penelope mi ha assicurato che non hanno una relazione e mai l'avranno».

Me lo aveva confermato anche Ben mentre era seduto ai piedi del mio letto a ingurgitare i taralli pugliesi che mi aveva mandato nonna.

«Forse perché lui non vuole avere una fidanzata».

Sospirai, ancora. «Già, può essere. A proposito di fidanzate... hai chiesto scusa a Violet?».

Questa volta, fu Nathan a sospirare. «Non mi vuole parlare!».

«Come darle torto?». Commentai sarcastica.

«Da che parte stai, tu?».

Percepii una punta di indignazione nel tono della sua voce.

«Da quella della ragione e in questa storia lei ha ragione e tu torto. Non ti sei comportato bene, Nathan McFields. Inventa qualcosa per porle le migliori scuse che la tua testolina riccia potrà mai escogitare».

«Ma sentila». Mi pizzicò delicatamente il fianco sinistro. «Non hai mai avuto una relazione e pensi di dare a me dei consigli?».

«Vero. Ma sì da il caso che leggo tanti manga e guardo molte serie tv. Per non parlare di tutti i film anni novanta e primi anni duemila che ho guardato con Tamara. Hai sbagliato e ora devi rimediare e devi farlo in grande stile. Lei è davvero il massimo. Se te la lasci sfuggire, sei veramente...».

Nathan mi guardò speranzoso, annuendo con la testa come per esortarmi a proseguire la frase. «Sono veramente... Dai che la stai per dire!».

«Una brutta persona». Conclusi.

Nathan scosse la testa sconfitto. «Sei assurda, Cooper. Ogni tanto dire una parolaccia è liberatorio. Non finirai all'inferno». Mi rimproverò scherzosamente.

«Io non dico parolacce perché ho paura di finire all'inferno. Ti ricordo che mia madre è atea e Tamara buddista. Non le dico perché non mi piacciono».

Nathan mi prese la mano e mi attirò a sé. Mi strinse nel suo abbraccio scoccandomi un bacio sulla tempia. «Torniamo dentro, Emma».

Posai anche io un bacio sulla sua guancia. «Okay».

«E cerca di farti piacere qualcuno che ti tratti bene come meriti».

«E tu va' a riprenderti Violet».

Dopo quelle due raccomandazioni, lasciammo la panchina che in seguito, nella mia testa, mi sarei sempre figurata come la famosa panchina del film Notting Hill.

In effetti, mancavano solo l'incisione For June who loves this garden from Joseph who always sat beside her, Julia Roberts e Hugh Grant. Per il resto, non vedevo alcuna differenza.

Almeno secondo il mio punto di vista.

Come le ali di una farfallaDove le storie prendono vita. Scoprilo ora