35. Il film

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Ollie

Emma era seduta accanto a me, con le ginocchia piegate al petto, la gonna larga a coprirle come fosse una coperta e quei dannati pesci posizionati sul tavolino davanti al divano.

Quella ragazzina non ci stava per davvero con la testa. Inoltre, ingurgitava spropositate quantità di cibo, specialmente di dolci.

Si era fatta fuori mezza scatola di biscotti e il film era cominciato da neanche mezz'ora.

Stavo ancora cercando di capire il motivo per il quale mi trovavo su quel divano con lei.

Eppure, la cena l'avevo preparata io. Quindi, ero più che sicuro che nel cibo non ci fosse qualche strana sostanza allucinogena che mi aveva portato a rispondere a Noah che quella sera non li avrei raggiunti al Dylan & Dog perché avevo da fare.

Ed eccolo là il mio da fare: stare seduto sul divano insieme a lei a guardare uno stupido film anni novanta in cui si parlava solo in rima.

«Andranno avanti così per tutta la sera?». Chiesi annoiato.

Emma rise. «Si, è tutto un versi».

«Lo conosci a memoria?».

«Come tutti i film che ho visto almeno tre volte. Lo so: ti stai chiedendo come possa sapere tre lingue, conoscere a memoria film e canzoni ma non riuscire a studiare».

Veramente no. Se l'era cantata e suonata da sola come faceva più o meno sempre.

«Se l'è chiesto sempre anche mai madre. Ma non so rispondere. Shinhai dice che mi ricordo solo quello che mi interessa. Effettivamente, così ha senso la questione. La mia memoria avrà una sorta di immagazzinamento selettivo». Scrollò le spalle continuando a guardare attenta il film. «Questo film, però, ha un posto d'onore».

«Perché ti piace tanto?». Le domandai sprofondando ancora di più nel divano logoro, posizionando i piedi sul tavolo e il braccio sinistro piegato dietro la testa.

Avrei potuto dire che mi stessi rilassando ma quella sera avevo superato il limite massimo di cose che non facevo da troppo tempo, come preparare la cena per un altro essere vivente che non fosse mia sorella.

«Non lo so, mi piace. Un giorno Tamara me lo fece vedere e io ci andai in fissa. Fissa nel senso che lo vedevo ogni sera recitandolo a memoria. Così, mio padre mi regalò una raccolta di sonetti di Shakespeare che ovviamente non lessi mai, perché gli unici libri che abbia mai letto con piacere sono i manga. Allora, cominciò a leggerli lui per me, specialmente nei periodi in cui ero incollata a un letto di ospedale. Un sonetto diverso per ogni sera. Per ognuno, poi, inventavamo una storia. La protagonista era una bellissima e abile guerriera che dormiva in lenzuola di seta e che finiva sempre per andare a salvare il suo principe. Perché in ogni storia che si rispetti c'è sempre qualcuno che viene salvato. A te piacciono le storie?». Mi domandò voltandosi verso di me.

Riuscivo a percepire il grigio dei suoi occhi bruciarmi la parte del viso su cui il suo sguardo si stava posando delicato.

«No».

«Perché?».

«Sono solo storie. È finzione. Non c'è niente di peggio che torturarsi con qualcosa che neanche è mai accaduto per davvero».

Emma fece una pausa. Forse, si stava chiedendo da dove uscisse fuori tutto quel mio cinismo, quale ne fosse la causa. Ma Emma era il tipo di persona che amava fare domande a tutti tranne che a se stessa. Infatti, ancora non si era chiesta perché cavolo si trovasse ancora dentro questa casa di merda.

«Senza storie non avrei mai vissuto tutte quelle avventure. Fa male il più delle volte, perché sei consapevole che non sei veramente tu a viverle, ma è così bello quando vivi avventure e emozioni che altrimenti non avresti occasione di provare. Comunque, mio padre ha raccolto tutte le storie inventate in un libro di cui io ho disegnato la copertina. Venne fuori una cosa orrenda perché non so disegnare. Ho cercato di disegnare la mia versione manga ma ho fallito miseramente. Sembra che mi abbiano fatto a pezzi e ricomposto, ma mio padre dice sempre che rimarrà il libro migliore che abbia mai scritto».

Come le ali di una farfallaDove le storie prendono vita. Scoprilo ora