9. Il numero

718 48 10
                                    

Ollie

Quando entrai al Dylan & Dog, si era fatto buio da un pezzo.

Ci ritrovavamo là quasi ogni sera da circa dieci anni.

Dylan, il proprietario, era un amico del padre di Noah e noi tre ci eravamo praticamente cresciuti. Il padre di Noah, prima che se la desse a gambe per cercare fortuna a Las Vegas senza fare più ritorno, ci portava con sé che Noah non aveva neanche sedici anni.

Quella sera, un tizio stava stonando di brutto le parole di Always di Bon Jovi sul piccolo palco preparato per accogliere l'ubriaco di turno che avrebbe dato sfoggio di vergognose abilità canore alterate dall'alcool. Il tizio in questione, che faceva fatica a tenere il microfono tra le mani proprio come a tenersi in piedi, era incitato da un gruppetto di persone buttate sotto il palco anche più ubriache di lui.

Distolsi lo sguardo, alla ricerca di quel coglione tatuato del mio amico, che sembrava avere più inchiostro addosso che buon senso.

Non ci misi molto a trovarlo. Ben, con le sue camicie sempre troppo appariscenti, non passava inosservato. Era seduto con Noah a un tavolo poco distante dal bancone.

Quando li raggiunsi, neanche persi tempo a salutarlo. «Sei andato a trovare Emma?».

Non avevo mai pronunciato il suo nome ad alta voce e mi sembrò che quelle quattro lettere non suonassero per niente bene nella mia bocca.

I piercing di Ben si mossero trasportati dal movimento delle sue sopracciglia aggrottate. Probabilmente, suonava strano anche a lui. «Emma, la ragazza farfalla?».

lo fulminai e lui capì che sì, mi riferivo a Emma, la ragazza farfalla. «Sì, con Penny. Perché?».

Mi sembrava sinceramente sorpreso e lo capivo. Anche io ero sorpreso del perché stessi tirando fuori la questione. «Cancella il suo numero!». Gli intimai.

«Perché?».

«Perché lei non ha niente a che fare con noi».

«La stai facendo esagerata, Ollie. Volevo vedere come stava. Si è presa un cazzo di pugno in faccia al posto tuo. Avrà la mia approvazione per il resto della vita».

Sbuffai innervosito e ciò lo sorprese ancora di più. Sollevò le braccia intrecciando le mani all'altezza della nuca. «Perché ti interessa tanto? Non ho intenzione di provarci. Non è il mio tipo: parla troppo, ha i capelli troppo lunghi e... è cotta di te, amico».

Ben scoppiò a ridere trascinando nella sua risata anche Noah.

«Fottetevi!». Esclamai calmo.

Noah mi scrutò per una manciata di secondi con un ghigno stampato in faccia. «Siamo suscettibili questa sera. Tieni, bevi». Mi passò un boccale di birra mezzo vuoto ma non accettai.

Dopo essersi sistemato la camicia che lo faceva sembrare una scacchiera ambulante, Ben puntò i gomiti sul tavolo e iniziò a parlare a bassa voce. «Avete capito che cavolo di malattia ha? Praticamente, da piccola si sbucciava se solo le respiravi vicino. La pelle delle braccia e delle gambe era praticamente carta velina. Per non parlare di quella dei piedi e delle mani. Poi ha fatto una terapia genetica».

«Genica». Lo corresse Noah.

«Sì, bravo. Terapia genica. Praticamente prendono i pochi geni sani che hai nel DNA, o una cosa del genere, e li fanno riprodurre nel tuo corpo affinché vadano a correggere le cellule che, invece, ti vogliono fottere. Come quelle delle pelle di Emma».

Non ero molto sicuro dell'esattezza della sua spiegazione e probabilmente non aveva capito un cazzo, ma Ben parlava con estrema convinzione.

«E?». Lo incalzò Noah.

Come le ali di una farfallaDove le storie prendono vita. Scoprilo ora