57. Marzo

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Emma

I giorni scorrevano lenti.

Mi sembravano tutti uguali e, nonostante cercassi di tornare quella di sempre, avevo sempre la brutta impressione che qualcosa dentro di me fosse cambiato a tal punto da rendere impossibile il processo inverso.

Ero cambiata, irreversibilmente.

Ero rotta, irrimediabilmente.

Neanche l'oro sarebbe riuscito a riempire le crepe.

Avevo sempre pensato che niente avrebbe battuto, in termini di sofferenza fisica, il dolore testimoniato dalle cicatrici visibili che restano impresse sulla pelle.

Questo perché non avevo mai provato il dolore di cui sono testimoni le cicatrici dell'anima, e a me se ne formava una ogni volta che pensavo ad Ollie. Più o meno accadeva a tutte le ore del giorno.

Quello sì che faceva male, così male da togliere il fiato.

Non riuscivo a smettere di pensare alle bugie che gli avevo detto, ai motivi ridicoli che avevo inventato per risultare credibile e lasciarlo.

Alternavo momenti in cui mi maledicevo dal profondo del cuore per averlo fatto, a momenti in cui non riuscivo a credere di averlo veramente fatto per poi passare ai momenti in cui ripetevo nella mia testa il vero motivo per cui lo avevo fatto.

E allora mi calmavo, pronta a iniziare a vorticare nuovamente in quel circolo vizioso.

Probabilmente, mi odierete.

Fate bene, perché mi odiavo anche io.

Ma Ollie meritava di partire e soprattutto meritava una vita libera da fatture di spese mediche e sofferenze per un problema che neanche era il suo. Ne aveva affrontati già abbastanza.

La vita che avevo vissuto da quando mi ero trasferita alle Palafitte sembrava essersi dissolta con la stessa facilità e rapidità con cui si dissolvono i sogni appena apri gli occhi.

Non avevo più sentito e visto nessuno.

Ben non aveva risposto al mio messaggio di scuse per essere andata via senza salutarlo. Beatrice, invece, lo aveva fatto ma in modo freddo e distaccato augurandomi un buon proseguimento di vita.

Penelope aveva preso a ignorarmi e ogni volta che mi incrociava per i corridoi dell'università cambiava strada facendo finta di non conoscermi. Le avevo mandato una miriade di messaggi ma smisi quando capii che mi aveva bloccato.

Sembrava che tutti mi avessero rimosso dalla loro vita e me lo meritavo.

«Terra chiama Emma... ci sei?». La voce di Shinhai mi riportò alla realtà.

Una realtà in cui era seduta alla mensa del campus con il vassoio ancora mezzo pieno che stavo fissando intensamente.

«Sì, scusa. Che mi stavi dicendo?».

Shinhai mi guardava poco convinta, con lo sguardo che rimbalzava dal mio viso alla ciambella abbandonata. «Che devi mangiare la ciambella. Forza! Non esiste che rinneghi gli zuccheri. Sono alla base della tua piramide alimentare».

Allontanai il vassoio con un gesto della mano. «Non mi va».

Shinhai espirò uno sbuffo. «Okay, allora che ne dici se dopo le lezioni andiamo da qualche parte?».

«Devo studiare».

I suoi occhi strabuzzarono sconvolti. «Se tua madre avesse saputo che ti serviva una pena d'amore per studiare, probabilmente ti avrebbe iscritto a un sito d'incontri già in tenera età».

Come le ali di una farfallaWhere stories live. Discover now