2. L'incontro

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Più la notte è nera, più soli riusciamo a vedere nel cielo. Finché è giorno riusciamo a vedere soltanto il nostro.

Jostein Gaarder

Ollie

Quando Nate entrò nello studio, stavo sistemando l'attrezzatura.

Gli scoccai una delle mie occhiatacce, prima di togliermi i guanti neri di lattice e buttarli nel cestino.

«Mi devi un favore». Lo avvertii quando mi raggiunse nella mia stanza.

Nate mi guardava divertito, poggiato allo stipite della porta con le mani nelle tasche. Solo due ore prima se l'era data a gambe per fuggire dai problemi familiari di cui mi raccontava spesso ma per cui non mi ero mai interessato più di tanto. Almeno fin quando non mi avevano portato a tatuare un mandala in mezzo alle tette alla sorella della sua ex moglie.

«Hai visto quanto è matta? Ti ha detto qualcosa?». Mi domandò sogghignando.

«Che sei un pezzo di merda e che, se non paghi gli alimenti ai tuoi figli, dà fuoco alla macchina e alla moto».

Nate fece uno smorfia e poi prese posto sul divano di pelle nera. «Io pago gli alimenti ai miei figli, ma non li pago alla mia ex moglie. Ha un lavoro, cazzo. Perché deve venire a rompere le palle a me?».

Scrollai le spalle e mi avviai verso il bancone. La questione mi interessava meno di zero.

Nate continuò a parlare dal divano, con la testa che sprofondava sulla seduta, le braccia conserte e le gambe distese. «Comunque, già te l'ho reso il favore».

«Ah, sì?». Risposi distratto mentre prelevavo i soldi dalla cassa.

«Sì. Quando è venuto a trovarti Max questa mattina».

Senza rendermene conto, serrai la mascella.

«Gli ho fatto capire che non si deve più far vedere da queste parti e che, se mette di nuovo piede in studio, non uscirà camminando sulle sue gambe».

«Un tantino drammatico». Commentai senza tradire nessuna emozione.

Nate si alzò e mi raggiunse. Si era fatto serio in viso e il tono della sua voce finì per pizzicare le corde dell'apprensione. O almeno così mi sembrò ma non potevo esserne sicuro visto che nessuno con una differenza generazionale come quella che intercorreva tra me e Nate si era mai preoccupato per me.

«Devi stare attento, Ollie. Quello è pazzo e ti sta addosso!».

Lo fissai e annuii. «Cosa ha detto?».

«Che ti fai desiderare più di una puttanella in calore e che in qualche modo la pagherai. E qui che ho risposto con la frase a effetto delle gambe». Concluse annuendo soddisfatto.

Nate mi conosceva da quando a quindici anni iniziai a fare illegalmente tatuaggi nel suo studio.

Finita la scuola, mi diede un lavoro e l'illusione che mi sarei riscattato della vita di merda per cui ero stato messo al mondo con l'onestà di un impiego che mi avrebbe permesso di vivere, mangiare, surfare e scopare.

L'ordine non era casuale - mi aveva spiegato - ma lui arrivò a capirlo solo a cinquant'anni.

Forse, solo il surf avrebbe dovuto avere la precedenza sul resto ma ormai era troppo vecchio anche per quello e gli piaceva troppo la birra.

«Me la vedo io con lui. Tu non devi averci niente a che fare».

Nate increspò la fronte. «Ragazzino, potrei esserti padre. Anzi, penso di essermi meritato almeno il ruolo dello zio simpatico dopo tutti questi anni in cui ho dato asilo a te e alla tua faccia da Bel Tenebroso che ha fatto bagnare tutte le ragazzine che si sono sedute su quella poltrona. Quindi, vedi di non averci niente a che fare tu».

Come le ali di una farfallaWhere stories live. Discover now