39. La clinica

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Ollie

Se c'era una cosa che odiavo più della domenica e delle routine, era la gente che pensa di sapere sul tuo conto sempre qualcosa di più, o meglio, di quello sai tu e che, in virtù di questa presunta conoscenza, si permette di distribuire consigli non richiesti come fossero volantini per l'inaugurazione di una nuova apertura.

E avrei voluto davvero odiare Emma Cooper per quel consiglio non richiesto biascicato sulla soglia della porta della mia camera. Ma dovetti ammettere a me stesso che lei stava diventando una delle poche eccezioni che confermavano la regola secondo cui mi stava sul cazzo la maggior parte degli esseri viventi incontrati su questo pianeta.

Ma non lo avrei mai ammesso, come non avrei mai ammesso che si fosse aggiudicata un piccolo posto nella cerchia di persone per cui, purtroppo, avrei fatto di tutto.

Odiavo che pensasse che fossi io il cattivo, che deputassi la malattia di mia madre a colpevole del suo essere un genitore di merda.

Non era così e lei doveva capirlo, vederlo con i suoi occhi grigi, che ogni giorno mi inghiottivano anche di più delle tenebre da cui cercavo di tenermi a debita distanza.

Per questo, uscii dalla mia camera pronto a dimostrarglielo.

Quando scesi l'ultimo gradino, la sentii parlare con Penelope in cucina.

«Andiamo». Le intimai comparendo alle sue spalle.

Emma si voltò di scatto, trasalendo per la sorpresa. «Dove?».

«Da mia madre. Ti dimostrerò che ti sbagli». Afferrai le chiavi sul tavolo della cucina facendole segno di precedermi. «Forza».

Ancora poco convinta, Emma si incamminò verso la porta.

Non ci mettemmo molto a raggiungere la clinica in cui non andavo da mesi. Un ex casa coloniale rimessa a nuovo per dare asilo a pazzi ricchi, così da ricchi da permettersi di morire pagando persino l'ultimo respiro esalato, o non così pazzi da voler sottostare alle cure disinteressate dei parenti.

Come sempre, era una questione di punti di vista.

Emma era rimasta in silenzio per tutto il viaggio e ora guardava l'imponente casa con uno sguardo indecifrabile.

Forse la stavo contagiando, almeno quanto lei stava contagiando me.

Il silenzio ci accompagnò anche per tutto il tragitto che ci portò davanti la camera duecentosei, terzo piano, affaccio esterno sul piccolo lago artificiale al centro del quale una cazzo di fontana veniva illuminata durante le festività.

Lo sapevo perché mi fermavo spesso, in quei giorni di festa, a osservare i giochi di luci attorno a cui tutti gli ospiti pazzi si radunavano. Ma me ne andavo sempre prima che potessi riconoscere tra quella folle folla la sagoma di mia madre.

Arrivati davanti la porta della sua camera, bussai e, proprio come fece Emma poco prima, entrai senza aver avuto il permesso.

Una donna bionda era rannicchiata sulla poltrona vicino la finestra e, quando i suoi occhi si posarono su di me, si alzò in piedi mentre io richiudevo la porta alle nostre spalle.

«Ollie, bambino mio. Il mio bellissimo angelo biondo». Mi sorrise ma non mi ricordò neanche per un secondo i sorrisi a cui mi stavo abituando, la cui proprietaria era proprio in piedi accanto a me.

La guardai avvicinarsi e mi scansai bruscamente quando cercò di accarezzarmi la guancia.

«Lei è Emma». Mi limitai a dire.

Emma le porse la mano. «Molto piacere, Signora Macsim».

«Raynolds. Non è sposata». Specificai.

«Oh, scusi». Emma abbozzò un sorriso che cercò di mantenere anche quando mia madre le prese il viso tra le mani.

Come le ali di una farfallaWhere stories live. Discover now