62. Giugno

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Emma

Presi l'ultima maglietta e la piegai destinandola alla sorte delle sue consorelle: la ficcai nell'ultima valigia ancora aperta.

Avevo preparato una valigia per le gonne, una per magliette, canottiere e indumenti più pesanti e una per scarpe e medicine.

Nel trolley piccolo da imbarcare a bordo avevo messo tutti gli oggetti che non potevo non portare con me, compresi i disegni di Ollie e la sua felpa, anche se nonna l'aveva lavata a mia insaputa e non profumava più di lui.

Ero pronta a sorvolare l'Oceano Atlantico. Almeno così sembrava dalle condizioni della mia camera. Le condizioni della mia anima avrebbero detto esattamente il contrario.

Avevo passato l'ultimo mese a cercare di dimenticare le ultime parole che mi aveva rivolto Ollie e a tenermi a galla con il ricordo di tutte le altre che avevano fatto da sfondo sonoro ai momenti più felici della mia vita.

Alla fine, mi ero convinta che meritavo tutto quello che stavo provando perché io l'avevo voluto, e quella piccola considerazione mi dava la forza necessaria ad andare avanti.

Mia nonna diceva sempre "chi è causa del suo mal pianga se stesso". Io era stata la causa del mio male e non mancavo mai di piangere me stessa: ero a posto!

Inginocchiata a terra intenta a fissare l'unica valigia ancora aperta, ero così tanto soprappensiero che la voce di mia madre che sbucò all'improvviso mi fece sobbalzare.

«Ti ho spaventato?».

Feci cenno di no con la testa e chiusi anche l'ultima valigia.

«Allora? Tutto pronto?».

Lanciai un'ultima occhiata alla cabina armadio aperta e svaligiata. «Sì. Penso di aver preso tutto e, se ho dimenticato qualcosa, lo comprerò. Gli spagnoli sono così colorati. Troverò sicuramente dei bellissimi vestiti».

Chissà se in qualche negozio, oltre a vestiti colorati, avrei trovato anche un allevia-sofferenze spray, perché di creme ne mettevo fin troppe.

«Hai salutato tutti?».

«Shinhai verrà all'aeroporto con me domani, e Davis è in Thailandia. Sono a posto». Constatai amareggiata.

«E Ollie?». La naturalezza con cui pronunciò quel nome mi fece domandare se stessi veramente parlando con mia madre e non con un cyborg inviato da una popolazione aliena.

Dopo quella famosa sera al Country Club, mia madre aveva deposto bandiera bianca, smettendo finalmente di comportarsi come Lorelai Gilmore. Aveva dichiarato il fallimento della missione perché io e lei non saremmo mai potute essere quel tipo di mamma e figlia che passano la serata sedute sul divano a confidarsi segreti bevendo cioccolata calda.

«Non penso abbia voglia di salutarmi». Ammisi incespicando in quella dolorosa verità.

«Devi imparare a essere più egoistica, Emma». Mi suggerì sedendosi sul bordo del letto.

«Cosa vuoi dire?».

«Tu pensi che lui non abbia voglia di salutarti. Ma tu? Vuoi salutarlo?».

«Sì, certo...». Salutarlo e non solo...

«E allora va' a salutarlo».

Okay. Avevo appena avuto la conferma di avere seduto sul mio letto un cyborg in circuiti e ossa. Lorelai Gilmore in confronto era l'ultimo dei miei problemi.

Probabilmente mia madre notò la mia pausa da sbigottimento in corso e pensò bene di riempirla con una perla di saggezza che avrei potuto postare su threads. «Non c'è cosa peggiore che portarsi dietro i rimorsi. Pesano più dei vestiti e non possono nemmeno essere imbarcati in stiva».

Come le ali di una farfallaWhere stories live. Discover now