4. L'ospedale

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Emma

Mia madre era Sara Conti Cooper. Mio personale carceriere e celerino da quando avevo esalato il mio primo respiro.

Successe un giorno qualunque di gennaio in cui l'umidità avrebbe messo a dura prova anche il capello più liscio in circolazione. Nacqui in una delle migliori cliniche private di Los Angeles, ma non feci in tempo a godere dei privilegi riservati a una neonata benestante che fui subito trasferita nel reparto di dermatologia, dietro la porta delle malattie genetiche rare.

Il quindici gennaio fu il giorno in cui la mia vita iniziò e quella di mia madre cessò.

Fu lei la prima a raggiungermi, quella sera.

Non ricordavo come ero finita nel retro dell'ambulanza che aveva chiamato Shinhai, come mi avrebbero poi raccontato. Non ricordavo nulla del tragitto. Amnesia da evento traumatico, mi spiegò la Dottoressa Simons durante la mia convalescenza.

Forse, custodivo un vago ricordo del paramedico che mi diceva che dovevo stare calma. Ma era un viso sfocato. Non riuscivo a vedere niente: a sinistra sprofondavo nel buio, a destra sprofondavo sott'acqua.

A mia madre diedero il permesso di fare irruzione nella mia stanza solo dopo avermi visitato, medicato, e quando la situazione era migliorata. Migliorata nel senso che a sinistra c'erano ancora il buio e un terribile drenaggio che aspirava il sangue dal mio occhio, e a destra potevo godere nuovamente di quel bianco magico.

Era finita all'ospedale, ancora.

Quando arrivarono anche mio padre e Tamara, ebbi la conferma di essere finita in un mare di guai. Mio padre dovette portare fuori dalla stanza mia madre perché non riusciva a smettere di urlare come una pazza, tanto da riuscire ad attirare la curiosità degli infermieri dei reparti adiacenti.

Non fecero ritorno per un bel po' di tempo e per un istante mi chiesi se non l'avrei ritrovata legata a un letto, stesa, tramortita da una generosa dose di calmanti e psicofarmaci.

«Oh, porca puttana!». Esordì Shinhai appena entrò nella mia stanza.

Davis, dietro di lei, era più bianco di un lenzuolo lavato con sapone di Marsiglia e candeggina da mia nonna.

Si erano ormai fatte le due di notte e la morfina stava facendo effetto.

«Non è grave come sembra!». Cercai di tranquillizzarli con un sorriso rassicurante ma avevo la parte sinistra del viso anestetizzata. Ed era la verità, poteva andare molto peggio. Almeno ero viva.

«Ah, no? Hai un'occhio iniettato di sangue. Sembra l'occhio demoniaco dei conigli bianchi. Uno di quelli che un mago psicopatico tira fuori dal cilindro degli orrori!».

Shinhai si piazzò alla mia sinistra. Glielo leggevo in faccia che si sentiva in colpa. Davis, accanto a lei, sembrava non avere il coraggio di proferire parola.

«Che aspetto ho?». Chiesi, anche se temevo la risposta.

Doc Simons mi aveva suggerito non guardarmi allo specchio almeno per un po' di giorni.

«Vuoi la verità?».

Annuii. «La verità nuda e cruda!».

Shinnai e Davis si scambiarono uno sguardo tutt'altro che rassicurante. Poi, fu Shinhai a sputarmi addosso la verità nuda e cruda.

«È come se Vecna e Voldemort avessero dato alla luce un bambino e si fossero impegnati a far convergere nel suo DNA tutti i tratti più orripilanti di ognuno di loro».

Sgranai l'unico occhio che potevo usare e mi portai una mano alla bocca inorridita. «Sono un mostro, quindi?».

«No». Sbottò Shihnai posando una mano sopra la mia. «Non lo dire ad alta voce. Il mostro di Frankenstein potrebbe offendersi».

Come le ali di una farfallaDove le storie prendono vita. Scoprilo ora