52. La gelosia

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Ollie

La prima cosa che feci ancor prima di aprire gli occhi fu allungare il braccio per controllare se Emma fosse a letto con me.

Il panico di non sentirla sdraiata accanto me li fece aprire di scatto e in un attimo tornò a galla tutta la merda del giorno prima.

Scattai su a sedere, ignorando la fitta che si conficcò come uno spillo nella mia testa.

Le coperte sgualcite e il cuscino posizionato di traverso nella metà del letto dove dormiva Emma mi fecero ben sperare.

Buttai un occhio alla sveglia. Erano le nove passate di mattina e io non avrei aspettato un minuto di più: dovevo capire se l'avessi fatta scappare definitivamente.

Avevo un tremendo cerchio alla testa e mi sentivo uno straccio, ma era niente rispetto a come mi sarei sentito se non l'avessi trovata al piano di sotto.

Scesi le scale di corsa con il cuore che protestava a modo suo e, quando sentii un miscuglio di voci provenire dalla cucina, rallentai fino a distinguerle.

«Emma, dovevi chiamarci». Esclamò David severo.

«Lo so, ma ho agito di istinto».

La sua voce riuscì a placare la protesta del mio cuore.

«Potevi farti male». La rimproverò Ben.

«Ma non è successo». Osservò Emma.

«Lo hai portato fin qui da sola?». Domandò Noah.

«Non ci avrebbe dato un passaggio neanche il camion dei rifiuti per quanto puzzavamo».

Feci la mia entrata trionfale in cucina, attirando gli occhi di tutti all'istante. Erano quelli blu di David che mi stavano trafiggendo più degli altri.

Era arrabbiato con me, molto. Ma anche io lo ero con me stesso.

«Buongiorno, dormiglione. Ti sei ripreso dal tuo sonnellino di ristoro?». Mi domandò con voce permeata di sarcasmo.

Lo ignorai perché il mio sguardo era impegnato su un'altra persona.

Era bellissima e mi stava guardando in quel modo anche dopo aver assistito a come fossi riuscito a ridurmi.

«Possiamo parlare?». Le domandai.

Dopo aver annuito, Emma si alzò e mi seguì in soggiorno.

Avrei voluto stringerla tra le mie braccia e baciarla per sapere se fosse arrabbiata tanto da andarsene o non abbastanza da rimanere con me, ma il suo sguardo stanco non mi permise di farlo.

Per un attimo, pensai che mi avesse dato retta e stesse per lasciarmi ma poi, per fortuna, parlò e io mi rilassai.

«Non ricominciare con la storia che devo andare via perché non mi meriti, che tu sei così e tutte le altre cavolate che posso elencarti a memoria».

«Ti prometto che non mi ridurrò mai più così». Promisi, certo che sarebbe stata un'altra di quelle promesse che avrei mantenuto a qualunque costo.

Emma annuì, fallendo il tentavo di serrare le labbra per evitare di sorridere.

«Come ti senti?». Mi domandò poi guardandomi dritta negli occhi.

L'attirai a me, afferrandola dolcemente per i fianchi e, quando le sue mani si posarono sulle mie spalle, abbassai la testa per baciarla.

Sapeva di buono. Di giusto. Sapeva di Emma.

«Ora bene». Ammisi dopo aver staccato di poco le mie labbra dalle sue.

Come le ali di una farfallaDove le storie prendono vita. Scoprilo ora