51. Le tenebre

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I met you in the dark, you lit me up.
You made me feel as though I was enough.

James Arthur, Say you won't let go 🎶

Emma

Le notizie brutte arrivano subito.

Così ripeteva sempre mia nonna a mia madre per rassicurarla e tranquillizzarla le poche volte che avevo il permesso di uscire e, si sa, le nonne hanno sempre ragione.

Infatti, quella sera, la notizia arrivò subito trascinando tutti in un vortice disordinato di attimi che sarebbe stato poi difficile ricomporre.

Era tutto iniziato da una chiamata, a cui ne erano seguite tante altre.

Poi eravamo saliti in macchina, tutti estremamente agitati, e senza rendermene conto mi ero ritrovata nuovamente in ospedale.

Questa volta, però, ero finita con il sedere ben piantato in una delle sedie della sala d'attesa, perché non ero io la paziente, bensì Fiona Raynolds che aveva provato a tagliarsi le vene... di nuovo.

Eravamo rimasti tutta la notte in quella sala d'attesa, seduti in silenzio, ad aspettare che qualcuno vestito del colore che tanto avevo odiato da piccola ci dicesse qualcosa.

Avevano permesso a Penelope di vedere la sua mamma solo dopo ore e ore di agognante attesa, quando l'emergenza era rientrata.

A turno, avevamo provato a chiamare Ollie ininterrottamente ma ogni chiamata che avessimo fatto era stata destinata a diventare senza risposta.

Non aveva risposto a Penelope, a Noah, a Ben, a David. Non aveva risposto a me.

Non ci aveva raggiunto all'ospedale e, quando eravamo tornati a casa alle prime luce dell'alba, non era in casa.

Di Ollie sembrava essersi persa qualsiasi traccia.

Nessuno di noi sapeva dove si trovasse. Nessuno di noi sapeva dove fosse andato dopo che era stato avvisato che sua madre aveva provato di nuovo a raggiungere le tenebre che le facevano la corte da tutta una vita. E mentre io, Penelope e Chase eravamo rimasti a casa ad aspettarlo, Noah e Ben erano andati a cercarlo.

Avevamo atteso invano, sedute sul divano neanche fosse la panchina della fermata di un autobus la cui linea è stata cancellata da tempo.

La preoccupazione mi stava togliendo il respiro e il sonno, visto che si erano fatte le dieci di mattina e non chiudevo occhio da più di ventiquattro ore.

Ancora seduta sul divano, guardai il telefono per l'ennesima volta: c'erano più di trenta chiamate in uscita che riportavano il suo nome e che non avevano ricevuto risposta.

«Stai tranquilla, Emma. Starà bene. Gli devi lasciare il suo spazio». Mi rassicurò Chase prima di alzarsi e portare nella sua stanza Penelope, che finalmente si era addormentata sul divano.

La frustrazione di essere totalmente inutile andava ad aggravare lo stato di ansia e angoscia in cui ero sprofondata.

Mi sarebbe bastato sapere che stesse bene. O forse no...

Girovagai per la casa senza sapere bene cosa fare. Ero stata tantissime volte da sola, immersa in quel silenzio assordante anche se decisamente più colorato. Eppure, quel giorno, non riuscivo a sopportarlo.

Sobbalzai quando il mio telefono squillò e, quando lessi il messaggio, il mio cuore si alleggerì di almeno un grammo.

Noah: Sta bene. Non preoccuparti.

Iniziai a torturami la pellicina del pollice con l'unghia dell'indice. Non avevo alcun diritto di entrare con la mia solita invadenza in questioni familiari così private, ma avevo bisogno di accertarmi con i miei occhi che stesse veramente bene.

Come le ali di una farfallaWhere stories live. Discover now