Capitolo 18

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Partimmo dopo solo un minuto d'attesa, c'eravamo solo noi, gli unici pazzi che stavano prendendo un treno in piena notte, ma non ci importava.
Vedevo scorrere la città al mio fianco ad una velocità mai vista prima, in aereo qualcun altro, mi aveva tolto quell'opportunità, tutto sommato, ero felice che stavolta, mi avesse lasciato libero il posto al fianco del finestrino, sedendomisi di fronte.
Le nostre gambe si sfioravano, le sue erano troppo lunghe, mentre lei mie erano serrate fra loro.
Un silenzio piacevole, calò fra di noi, ero troppo rapita da tutte quelle prime volte, che solo con lui stavo avendo.
"Sembri una bambina la mattina di Natale", sussurrò, sentivo il suo sguardo  bruciare sul mio profilo, così lo affrontai.
"Per me è tutto così nuovo", dissi, giocherellando con le maniche, troppo lunghe della mia giacca, ormai troppo vecchia, ma ci ero affezionata e non ero mai stata in grado di staccarmi dalle mie cose.
Mai, odiavo gli addii e qualunque forma di arrivederci, perché avevo sempre la costanza paura di perdere quel qualcosa per sempre, di essere abbandonata ancora e ancora.
"É brutto perdersi alcune cose", il suo tono si fece più serio e cominciai a pensare, che non si stesse riferendo solo a me e alla mia vita da monaca di clausura, perché era evidente che apparissi così ai suoi occhi e a quelli di molti.
"Una volta mi dicesti che si può sempre recuperare", lo ricordavo bene, in realtà ricordavo tutte le cose che mi aveva detto fino a quel momento.
"Certo", il suo sguardo tornò nel mio. "Ma i giorni persi, quelli no, nessuno te li ridarà".
"Mi stai per caso parlando di te?". Abbozzai un sorriso, non mi piaceva vederlo così triste, avrei voluto essere io quella che gli avrebbe ridato quei giorni, magari rendendolo felice.
"Ovviamente no, piccoletta", ridacchiò, sporgendosi verso di me, poggiando i gomiti sulle sue ginocchia.
In quei momenti, quando non era il solito lunatico, era quasi simpatico.
"Mi hai illusa", misi su una finta espressione imbronciata, facendolo ridere ancor di più.
Missione compiuta, mi dissi.
"Generalmente ci so fare, con le ragazze intendo", alzò un sopracciglio.
"Quindi, le illudi", deglutì.
L'idea di essere una delle tante, non era molto allettante.
"Credo che siano loro ad illudersi, una ragazza intelligente non lo farebbe mai, almeno non per uno come me", scrollò le spalle.
"Non hai una buona idea di te stesso", constatai con un pizzico di amarezza.
"Mi conosco, tutto qui".
"Io la penso diversamente, ma non posso dire di conoscerti", ammisi, continuando a guardarlo, mi piaceva poter cogliere le rare reazioni spontanee che aveva.
"Già, non puoi dirlo", sul suo viso, nacque uno di quei sorrisetti furbi, che tanto adoravo, ma che tanto mi davano sui nervi.
"Lo scoprirò da sola dove siamo diretti?". Cambiai argomento, prima che la mia boccaccia e la mia innata curiosità, potessero rovinare quel momento.
"Perspicace", sussurrò, avvicinando le sue mani alle mie orecchie, ma prima di coprirmele disse: "Chiudi gli occhi e non barare, non è da te".

"Oddio", urlai, portandomi le mani sul viso, non potevo ancora crederci.
"Devo dedurre che ti piaccia?".
"Puoi dirlo forte ", continuavo a guardare quella gondola, come se fosse un bicchiere d'acqua ed io non bevessi da mesi. "Non era neppure da programma venire a Venezia".
"Dovresti saperlo che io non rispetto mai quello che c'è scritto su uno stupido figlio", lo vidi poggiare un piede sulla banchina, salendo sulla gondola.
"Aspetta ma...".
"Vuoi tirarti indietro proprio ora?". Mi guardò con la coda dell'occhio e con un solo salto, fù dentro.
"Non credo sia legale", mormorai, avvicinarmi di poco mentre lui aveva già preso posizione.
"Neppure quello che abbiamo fatto la scorsa notte era legale, eppure...". Lasciò la frase in sospeso, afferrando con le mani i due remi ai suoi lati.
"Hai abbastanza soldi per pagare anche la mia di cauzione?". Domandai, mettendo le mani sui fianchi.
"Non ti farei mai passare una notte al fresco", ridacchiò. "Saresti ridicola in un posto come quello, in senso buono, si intende", aggiunse, premendo le labbra fra di loro in una linea sottile.
"Fingerò che tu mi abbia appena fatto un complimento", dissi, mettendo un piede su di un piccolo rialzo.
"Vieni qua", mi porse la mano che non esitai ad afferrare. "Mettiti davanti", disse, facendomi spazio.
Presi posto, rilasciando un lungo respiro, ero agitatissima.
"Pronta?". La sua voce calda e roca mi colpì alle spalle, ebbi bisogno di qualche secondo per rispondere, ma la verità era che per lui, lo era sempre stata.
"Si", mormorai, poggiando le mani ai lati della gondola, quando questa prese a muoversi lentamente.
"C'è qualcosa che non sai fare?". Domandai dopo qualche minuto.
"Non credo", sghignazzò, proseguendo con una grazia che non pensavo gli appartenesse, data la sua guida in moto.
"Modesto, però", ridacchiai, cercando di sgranchirmi le gambe per quanto la posizione me lo permettesse. "Comunque, credo che di notte sia tutto più bello", mi alzai, barcollando un pó, solo per potermi girare con tutto il corpo verso di lui.
"Volevi farci affondare per caso?". Scherzò, mettendo su un'espressione buffissima.
"Tanto sappiamo nuotare entrambi", scrollai le spalle.
"E quindi, la notte ti piace", ed ecco che non appena tiravo fuori anche lui, cambiava argomento, mi ci stavo quasi abituando al suo carattere fortemente altalenante.
"Molto", sorrisi, poggiando il capo sulle mie ginocchia. "A te?". Tentai ugualmente, infondo non era una domanda chissà quanto personale.
"Molto", ripetè, fermandosi e poggiando i remi ai lati del suo corpo.
"Non ti sbilanci mai tu eh?".
"Preferisco stare in una posizione stabile, nulla di personale", mormorò, emulando la mia stessa pozione. "Tu invece, dovresti parlarmi di te", aggiunse.
"No".
"No?". Inarcò un sopracciglio.
"Le cose dovrebbero essere reciproche", dissi, giocherellando con i lacci delle mie converse.
"Dovrebbero, ma non sempre lo sono", spostò lo sguardo, serrando la mascella.
"Non voglio rovinarmi questa serata, quindi lasciamo perdere", sussurrai, abbassando il capo.
"Ti piace questa serata?". Sentivo che era tornato a guardarmi.
"Si, preferisco questo a tutto quel frastuono in quella sala", ammisi.
"Qualcuno direbbe che sei strana".
"Oh lo so", ridacchiai. "Ma infondo, a chi importa?".
"A nessuno, a nessuno importa davvero di te, ognuno ha uno scopo", leggevo la rabbia attraverso i suoi occhi.
"Tu ce l'hai?".
"Si, uno si", mi meravigliò la sua risposta ad una domanda che aveva lasciato le mie labbra senza che neppure ci pensassi. "E tu? Qual'é il tuo scopo?".
"Un anno fa ti avrei risposto, avere una famiglia, oggi non lo so". Passai le mani fra i miei capelli, un tempo era più facile aprirsi con gli altri. "Ho ricevuto così tante porte in faccia in questi anni, da arrivare alla conclusione, che forse non ne vale più la pena, è inutile aspettare e illudermi".
"Quindi non vuoi più una famiglia?". Sembrava sinceramente interessato e questa stessa impressione l'avevo avuta anche in un'altra occasione sul medesimo argomento.
"Non è quello, penso che infondo in cuor mio ci spererò sempre, più che altro, ho paura", ammisi, parlare con lui si stava rivelando molto più facile di quanto avessi mai potuto immaginare.
"Di cosa hai paura?". Mi scrutò attentamente, avvicinandosi di poco, mi piaceva quella vicinanza, mi faceva star bene; chissà se era lo stesso anche per lui.
"Di essere abbandonata, di nuovo", sussurrai, ma stavolta non riuscì a reggere il suo sguardo gelido.
"Non ne avrebbero motivo", le sue parole erano dolci, ma non la sua voce, quella cercava sempre di mantenere un certo contegno, infondo era pur sempre di Damon che stavamo parlando; il re dell'autocontrollo.
"I miei veri genitori lo hanno trovato, un motivo", alzai lo sguardo, spalancandolo, quando notai quanto vicini fossero i nostri visi.
Stava per aprir bocca ed avrei tanto voluto ascoltare cosa avesse voluto dirmi, piuttosto che rischiare un infarto ,quando una torcia ci colpì dritta in faccia.
"Che state facendo voi due?".
"Cazzo", imprecò Damon, recuperando velocemente i due remi.
Non ci eravamo allontanati molto, quindi in meno di un minuto, raggiungemmo la banchina che dava sulla terra ferma. Afferrò la mia mano nella sua, aiutandomi ad alzarmi. "Andiamo", disse affannato.
"Hey dove andate? Chiamo la polizia", saltammo giù dalla gondola e non avemmo alcuna difficoltà nel superare quel vecchio impiccione e correre come due pazzi per le strade di Venezia.

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