Saliscendi

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Attraverso la sala densa d'aria calda, piena di mostri danzanti e musica a palla.

Non mi guardo attorno, non voglio incontrare di nuovo lo sguardo di Filippo. Mi fa sentire scomodo con me stesso più di quanto non lo sia già. E mi fa rabbia la sua disapprovazione.

Cerco l'accesso alle scale, costeggio le pareti per arrivare alla rampa. Supero il primo piano, mentre la musica si fa meno intensa. La casa è elegante e moderna. Immagino Alex muoversi in questi spazi. Forse gli si addicono, ma non lo sento appartenere a questa casa.

«Quassù» mi chiama Alex, per guidarmi con la voce.

Salgo ancora la seconda rampa e me lo trovo davanti, in jeans e t-shirt. Io ho il costume addosso e lui il suo trucco scuro sugli occhi. Quindi non mi sento troppo ridicolo.

Mi prende per mano, sorridendo e mi tira dentro la stanza, richiudendo la porta.

E' la sua camera, presumo. Anche se da pochi mesi, è comunque il suo spazio più intimo. Mi sento privilegiato e un po' agitato a essere qui. Mi muovo piano e osservo in giro. Lo faccio senza nasconderlo. Lui non fa niente per impedirlo.

La stanza non è enorme. C'è un letto matrimoniale con una coperta blu. Mensole con macchine fotografiche di diverse marche. Una scrivania con sopra lo zaino e libri e quaderni. Sono tentato di aprirne uno per vedere la sua calligrafia.

«Dov'è Giò?» gli chiedo dandogli le spalle.

«E' già andato via. Doveva riconsegnare del materiale tecnico a mio padre. Voleva che lo salutassi, niente di più.»

Le pareti sono tappezzate da non so quante foto appese, in bianco e nero e a colori, di grandezze diverse. Foto di visi, di dettagli, di gabbiani, foto di Capitan Fra, una foto mia, una del padre... No, aspetta: una foto mia?

Alex mi tira per il costume, per richiamarmi all'ordine, in difetto. Chiaramente non si ricordava della foto appesa.

«E questa?» chiedo incuriosito.

E' una foto in bianco e nero, di qualche mese fa, ma da molto prima che ci conoscessimo. Al parco con Filippo, metà giugno, credo.

«Non sono uno stalker» si scusa, a disagio.

Stacco la foto dalla parete e la guardo. Immagino Alex che mi spia con il suo obiettivo. Mi sento un po' euforico e un po' confuso.

«Tu sei sicuramente uno stalker. Questa ne è la riprova!» Metto su una faccia da finto sconvolto, sventolando la foto. «E quante ne hai ancora in giro?»

Se la riprende con un gesto rapido.

«Ero arrivato da pochi giorni. Aspettavo che Fra finisse l'allenamento. Giravo con la mia reflex. E' stata la prima volta che ti ho visto.»

Una sfumatura timida attraversa i suoi occhi che mi guardano dal basso verso l'alto. Adoro metterlo in imbarazzo. E' meschino da parte mia. Forse perché mi mette così soggezione, che è l'unico espediente che ho per avere un briciolo di controllo.

«Ma non hai risposto» insisto.

«A cosa.»

Mi avvicino appena. Ho voglia di toccarlo, ma è così bello da paralizzarmi.

«Quante foto hai trafugato a mia insaputa?» lo minaccio bonariamente.

«Te ne ho scattate qualcuna, è vero, ma solo quel pomeriggio. Questa è la mia preferita perché hai lo stesso sguardo del disegno di tua madre» la voce è emozionata, mentre parla, e mi sento il cuore ruzzolare dentro.

Mi avvicino ancora per sentire almeno il suo profumo. Sono nel suo mondo, quando lo percepisco.

Mi piace sapere che mi abbia notato prima ancora che lo facessi io. Lo guardo in quel modo che lo intimidisce e Alex fa un sorriso teso, spostando gli occhi sulle mie labbra. Penso alla sua andatura scazzata e scontrosa, e al contrasto con questa tenerezza che riserva a me. Dio, mi piace da morire.

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