Basta

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Mi strappo la felpa di dosso e la lancio a terra con tutta la forza che ho, con un grido strozzato e rabbioso.

Mia madre chiude la porta della mia stanza per lasciarmi solo.

Aspetto che sia di nuovo in camera sua per prendere il cuscino, premerlo sulla faccia fino a sentire un dolore allo zigomo crescente e devastante, e poi urlare. Lo faccio con tutto il fiato che ho, per il livido che mi sta massacrando, con questa pressione, e per quello che sta succedendo al cuore. Che non lo voglio sapere.

Premo ancora più forte, stringendo la federa nei pugni e grido ancora senza voce, perché non riesco a sostenere le fitte, ma voglio che il dolore fisico mi distragga. Devo strapparmi via tutte le parole che Filippo mi ha lanciato contro. Continuo a sentirle graffiarmi dentro, scavarmi da vivo, mentre cercano il punto di non ritorno, una frase alla volta. Con quella voglia di farmi male, ma soprattutto con la voglia di voler chiudere una volta per tutte.

Lancio il cuscino contro la scrivania, facendo scoppiare un rumore esagerato.

Poi tutto torna nel silenzio.

Basta. Sì, basta. Ora basta.

Afferro il cellulare sul comodino, non esito, blocco Filippo su WhatsApp, lo blocco su Instagram, poi cancello il suo numero dalla rubrica, mi tolgo anche dal gruppo della cricca.

Basta.

Prendo due buste nuove di ghiaccio e me le appoggio sulla faccia perché mi sta pulsando forte.

Basta.

Sento la rabbia irrompere e razziare ogni cosa, dentro di me, fino alle prime luci del mattino, quando resto con un dolore unico, omogeneo e diffuso.

Verso le 7, sento mia madre bussare alla porta. E' inutile far finta di dormire perché non ci riuscirei mai. Non aspetta che io risponda, entra. Mi trova con la faccia al soffitto, presumo devastata.

«Se non vuoi andare al pronto soccorso, chiamo zio Giorgio. Mi dispiace, ma voglio farti vedere da un dottore.»

Zio Giorgio. Ci mancava lui a completare la disperazione. Perché non ho già sofferto abbastanza questo weekend.

«Va bene» dico, senza spostare gli occhi dal soffitto, quasi senza voce. L'ho logorata del tutto.

«Gli scrivo, poi ti faccio sapere.»

«Va bene.»

Mi giro su un fianco per darle le spalle. Lei non aggiunge altro ed esce. Afferro uno dei guanciali e ci appoggio la faccia. Riconosco il profumo di Filippo, un pugno mi buca dentro, lancio via il cuscino, lancio via anche l'altro, e l'altro ancora.

Zio Giorgio arriva alle 10, entra in camera con la borsa medica, ma soprattutto con la sua faccia troppo uguale a quella di mio padre.

Lui lo sa che incontrarlo mi fa soffrire, ogni volta. Dall'incidente, mi evita fisicamente. Preferisce chiamarmi, o scrivermi. Esserci in altro modo.

Quando mi vede, la sua espressione è seria e preoccupata. Gli viene la stessa ruga sulla fronte che veniva a mio padre. Ho voglia di vomitare.

«Cri... ma chi è stato a ridurti così.»

«Non lo so» dico, con voce atona.

Mi fa altre domande, mi visita, mi chiede di fare alcuni movimenti, tratta il taglio sulla fronte e chiude tutto con un cerotto vistoso. Non crede che lo zigomo sia rotto, ma vedremo più avanti, se sarà il caso di fare una radiografia.

Alla fine, si siede sulla scrivania con una gamba appoggiata a terra e l'altra sul pianale, incrocia le mani.

«E l'altro come sta?» mi chiede, con un sorriso ironico.

GabbianiWhere stories live. Discover now