2 novembre

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Scendo dal bus col cappuccio della felpa fin sopra la testa e, con la torcia del cellulare accesa, percorro il sottopasso che puzza di marcio e di agguati. Capisco perché mia madre non voleva sapermi solo. Affretto l'andatura perché me la faccio sotto e inciampo pure in una bottiglia di vetro.

A quest'ora non c'è davvero nessuno, anche se tra poco arriverà qualche runner, perché la spiaggia si presta.

E' ancora buio e i lampioni illuminano a chiazze i casottini degli stabilimenti chiusi.

C'è odore di salsedine e di alghe secche. In questi giorni è stato piuttosto caldo, ma oggi c'è un vento leggero e freddo che mi fa rabbrividire. Ma non credo sia solo per il freddo.

Imbocco la passerella di cemento a sinistra e cammino per un centinaio di metri, fino al punto in cui ci sono tre barche ammassate vicino al capanno. Mi piace perché è riparato e riservato.

Stendo il telo e ci lascio sopra lo zaino con il thermos, poi cammino fino alla risacca. Stupide ondine si rincorrono l'una sull'altra. Più in là c'è la scogliera. Il mare è ancora scuro.

Certo non è la nostra spiaggia, eh papà, a ridosso del monte, con la ghiaia bianca e il mare selvaggio. Ma non saprei come arrivarci a quest'ora. Ci dobbiamo accontentare dell'alternativa.

Sento il rumore di qualche macchina che passa oltre la ferrovia. La città inizia a svegliarsi.

Eccolo già il chiarore.

A volte cerco di immaginarti vicino a me. C'è un attimo, una frazione di secondo, in cui ci riesco davvero. E' una sensazione molto forte, ma non la cerco spesso, perché l'assenza che poi arriva subito dopo è feroce e fa più male.

E' adesso che mi avresti messo il braccio sulla spalla. No, non è vero, non adesso, aspettavi di vedere il sole sbucare, allora lo facevi, quando i colori iniziavano a diffondersi, nel momento in cui la vita arrivava e tutto ricominciava.

Tutto si può rifare, e si può rifare meglio, mi hai detto, una volta.

L'alba era il momento in cui mettevi dentro le tue massime. A volte erano frasi del cazzo, papà, ammettiamolo, altre però mi restavano impresse.

Mi manchi che non respiro, a volte.

Mi stringo nelle spalle, assalito dal freddo. Il vento è sceso.

Vengo distratto da un vago profumo di caffè. Non so da quale bar provenga perché non ci sono bar aperti, sulla spiaggia, in questa stagione.

Poi avverto dei passi che si avvicinano, lentamente, e l'odore del caffè più intenso. Non mi spavento, ma non mi volto.

I passi si fermano dietro di me e trattengo il respiro. Non oso nemmeno sperare.

Vedo la sua mano che mi passa la tazza fumante del thermos.

Un nodo di commozione mi sale in gola. Vorrei abbracciarlo, ma non riesco nemmeno a voltarmi.

Do un sorso al caffè, per cercare di calmarmi e riscaldarmi.

Filippo si affianca a me, nella luce azzurrina che inizia a diffondersi.

Non dice niente. Gli ripasso la tazza e vedo solo che mi lancia uno sguardo veloce. Neanche lui ha una bella faccia.

Aspettiamo così, in silenzio, ognuno nei propri tormenti. E quando il disco di luce sbuca all'improvviso, struggente e splendido, come ogni inizio, sento un'onda di emozioni schiantarsi dentro di me. Ma quella più aggressiva e predominante è la paura.

Tutto sta cambiando attorno a me. Le certezze, soprattutto. E tu non ci sei più.

Filippo si volta verso di me e vede che sto per crollare. D'istinto, mi mette un braccio sulle spalle, ma è il gesto che finisce per rompermi e soffoco il pianto nelle mani. Lui esita. Forse pensa che  fraintenderò ogni suo gesto, adesso, è irrigidito e combatte di sicuro con le sue paranoie.

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