Insinuazioni

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Da più di mezzora, singhiozzo nascosto da questo pino, devastato dal pianto di Alex.

Mi arriva una chiamata. Cerco il cellulare nella tasca posteriore dei jeans. Mi asciugo le lacrime. E' Edo. Cazzo, dovevo incontrarlo, che ore sono? Do tre respiri forti. Cerco di trattenermi. Rispondo.

«Pronto» la mia voce risuona molto nasale.

«Ciao, Jannik, sono al parcheggio. Dove sei.»

Nel suo tono non c'è traccia della rabbia di domenica mattina. Ha il suo solito piglio canzonatorio.

«Sto arrivando.»

Ho il cuore stritolato. Mi alzo e sento una fitta atroce arrivare alla gamba. Le solite gentilezze di quel pezzo di merda. Ma è meglio così, mi distrae dall'altro dolore che mi attanaglia lo stomaco.

Mi sfrego la faccia con le mani e cerco di cancellare al meglio il pianto. Recupero lo zaino e, reggendomi il fianco, zoppico fino all'uscita del parco.

Edo sta fumando appoggiato alla carrozzeria della sua Lotus. Appena mi vede, si mette in piedi e lancia via la cicca.

«Che è successo?» mi chiede, serio.

«Niente» mi dirigo verso lo sportello, entro a fatica perché la macchina è bassa. Vaffanculo alle spider.

«Aiutami con questo cazzo di zaino.»

Edo lo afferra e lo mette dietro.

«T'hanno preso a botte?» mi chiede entrando, fissandomi.

Non rispondo, tanto che gliene frega.

«Dài, ti porto a casa mia, andiamo a metterci il ghiaccio.»

«Ora che arriviamo, sono morto.»

«Non dico la dependance della villa. Abito qui vicino.»

Valuto la situazione: devo riprendermi e non posso né tornare a casa subito, né andare da Filippo, perché potrebbe esserci la madre.

«Ok.»

Edo parte, niente musica, stavolta.

«Chi è stato? Lo conosci?»

«Sì.»

«Ma hai reagito o le hai solo prese?»

Non dico niente.

«Ok, le hai prese e basta.»

Edo sta in silenzio, abbassa il finestrino e si accende un'altra sigaretta. Lo vede che sono completamente distrutto. Ci stiamo dirigendo verso la periferia, nella zona collinare. Ci fermiamo davanti a un cancello blindato, lo apre con un telecomando. C'è una vecchia casa di campagna, in pietra. Non è grande. Entriamo nel piccolo piazzale di ghiaia. Fitte siepi e alberi alti circondano il casale. Di sicuro Edo ama la privacy a casa sua, è chiaro.

Varcata la soglia, sento un odore di solvente. Penso, prima di tutto, a qualcosa di losco, di non so quale natura. Invece, quando apre le persiane, la luce illumina una grande elica di legno appoggiata su un cavalletto. Ci sono vasi pieni di pennelli sopra una panca e barattoli di solventi e vernici.

Edo accende due lampade, perché il brutto tempo rende tutto più buio.

«Mettiti sul divano, ti prendo il ghiaccio» mi indica il divano di tessuto scuro, al centro della stanza.

Mi osservo in giro. Le pareti di pietra a vista sono tappezzate di enormi foto di aerei. La poltrona di velluto verde scuro è coperta da due felpe, una gonna di paillettes rosa che non credo sia sua, e un reggiseno. Mi chiedo se ci sia qualcuno al piano superiore. Sulla destra c'è un tavolo spesso di legno irregolare, dove Edo ha lanciato il telefono, le sigarette e le chiavi dell'auto. Ci sono anche un pacco di wafer, tre bottiglie vuote di birre, due volumi fotografici, due manubri per palestra e un asciugamano.

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