6. Mi aspettavo di meglio

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Aprii la porta di casa che era quasi l'alba, e sulla porta rimasi a lungo. Era ancora buio, dentro.

Mi avrebbe vista rientrare? Mi aveva già vista aprire? Mi stava guardando, chiedendosi perché me ne stavo pietrificata nella cornice dell'entrata del mio appartamento?

Avevo già infranto una delle sue richieste: non mi ero esibita.

Perché dovrai continuare a lavorare, Lea. E a sorridere, anche se dentro ti senti morire.

Avevo servito al bancone sfoggiando un sorriso che gridava aiuto, poi avevo ballato sul mio palco con gesti meccanici, senza avvertire il tocco delicato della musica, la coccola della melodia.

Infine, ero entrata nella stanza blu. Avevo acceso la webcam. Poi l'avevo spenta. Mi ero seduta sulla poltrona, ed ero rimasta lì, off line. In attesa che accadesse qualcosa. Che Trevor bussasse alla porta. O che la prendesse a calci. Che mi costringesse a fare quello che avevo sempre amato fare, ma che quella notte mi schifava.

Non venne nessuno. Attesi che tutti, nel locale, se ne fossero andati. Denis fu l'ultimo, lo vidi dalle telecamere a circuito chiuso attardarsi sperando di potermi accompagnare a casa, farmi parlare. Si arrese anche lui.

E in quell'istante mi stavo chiedendo se quello di Trevor non fosse un bluff: forse non poteva davvero vedermi, seguirmi, sentirmi. Forse aveva mentito per piantarmi dentro il seme del dubbio, che avrebbe germogliato in un'ossessione fastidiosa.

Mi aggrappai a quella possibilità, misi piede in casa, chiusi la porta. Ma non accesi a luce. Guidata dal bagliore di un sole che sorgeva con impietosa pigrizia, mi sdraiai sul divano senza spogliarmi.

***

Non chiusi occhio. Era sabato, almeno. Il cellulare vibrava da ore; pensai fosse Denis, lo ignorai, senza abbandonare il rassicurante abbraccio del divano, fino alle 11.

Con lo sguardo scandagliai ogni angolo del soffitto. C'era un microcamera nascosta tra i cristalli neri del lampadario? Oppure ne aveva messa una sopra al condizionatore di design?

L'appartamento era inondato della luce fredda del giorno. Il dubbio mi divorava. Mi misi a sedere, distrutta, spettinata. Puzzavo di sudore e di alcol. Non mi sarei mai, mai fatta una doccia senza la certezza di essere sola in casa. Senza la certezza che non ci fossero occhi deviati a spiarmi mentre mi spogliavo, mi lavavo, pisciavo e...

Mi alzai di scatto e iniziai a guardare nelle cornici lucide degli specchi, nello spessore dei quadri, nel riquadro dell'orologio appeso alla parete.

Il cellulare ricominciò a vibrare. Non avrebbe mai smesso: Denis era inarrestabile.

Presi l'aggeggio infernale con l'intento di spegnerlo, ma non tutte le notifiche che vidi sul monitor erano del mio migliore amico. Un numero sconosciuto, non presente in rubrica, mi aveva inviato l'ultimo messaggio. Non fu affatto difficile indovinare il mittente.

Smetti di cercare le microcamere, se le togli

le faccio rimettere.

Non osare spegnere il cellulare.

Mi vedeva, quindi. Sentii la rabbia risalire dallo stomaco e incenerire qualunque altro stato d'animo. Si offuscò la paura, si sfocò l'incertezza e si nascose anche quella sensazione di inadeguatezza che non mi aveva mai nemmeno sfiorata prima della notte precedente.

Lanciai il cellulare sul divano e rovesciai a terra tutto ciò che si trovava sugli scaffali, sulle mensole e sul tavolino di cristallo. Le avrei cercate, trovate, e lanciate nel cesso, quelle cazzo di microcamere. E quando lui le avesse rimesse, io avrei ricominciato.

PRICELESSWhere stories live. Discover now