82 Soffrire ancora un po'

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Il fatto è che era tutto nero. Ed era un nero che avevo conosciuto già, me lo ricordavo bene, perché pareva passata una vita, e invece era stato... il giorno prima, cazzo. O quello prima ancora? Ero confusa, e la testa faceva male, e anche il collo.

Ma quella parte di memoria funzionava bene, e ricordavo che per uscire dal nero avevo seguito il tocco di Andrey. Mi sarebbe piaciuto aprire gli occhi e trovarmi di nuovo lui a prendersi cura di me. Invece trovai Viktor.

Mi guardava dalla poltroncina, un bicchiere che gli penzolava dalle dita indolenti, i gomiti appoggiati sulle ginocchia e uno sguardo parecchio contrariato sulla faccia.

«Non mi piace picchiare le donne, stronza. Lo faccio, se necessario. Ma non mi piace.»

Rimasi sdraiata sul pavimento della black room, dove probabilmente mi aveva abbandonata lui, come un rifiuto di nessuna importanza. Non ero sicura nemmeno di poter parlare, mi girava la testa anche solo nel tentativo di fare mente locale su quello che era successo.

«Puoi avere la tua bottiglia» aveva detto. E poi?

La ricostruzione dei fatti divenne meno importante non appena la vidi, la fottuta bottiglia. Accanto alla poltroncina su cui sedeva lo stronzo. Viktor se ne accorse.

«La vuoi?»

Sì. Ma non sapevo più perché. Quindi non risposi, e tornai a guardare lui, chiusa nel mio silenzio che non mi avrebbe difesa ancora per molto.

Si chinò di lato per afferrare il collo della bottiglia. Si alzò con una lentezza che mi distrusse, mentre lasciava il bicchiere vuoto a terra.

Si piegò accanto a me, ed ebbi paura, perché il modo in cui mi guardava aveva a che fare con la sadica curiosità di uno scienziato pazzo che cerca Dio nelle interiora di una cavia.

Ricacciai indietro le lacrime, ma fu difficile.

«La volevi questa dannata bottiglia. Non era una scusa per uscire da qui. Però hai provato a scappare lo stesso. Perché?»

Sbattei le palpebre, e dietro di esse ritrovai i frammenti di quello che era successo quando mi aveva portata nel locale per prendere la vodka.

Sì, avevo tentato di raggiungere la porta da cui ero entrata.

«Perché... speravo di poter concludere tutto fuori da qui.»

Sapevo che mi avrebbe riacciuffata, era scontato. Ma magari sarebbe accaduto all'esterno. La mia fuga era durata un paio di metri, e si era conclusa con un colpo alla tempia e un tuffo nel buio.

Inspirò a fondo, senza schiodare gli occhi dai miei. Ci leggevo cose contorte, nei suoi.

«Stanotte non si conclude niente, cyka. La tua convivenza con me durerà parecchio. Violerò tutti i ricordi che hai del tuo locale. Li imbratterò finché proverai ribrezzo per ogni angolo di questo posto. Quindi no, non è fuori di qui che proseguiremo. Se anche trovi il modo di mettere il naso all'aria aperta, io ti trascino di nuovo dentro. Chiaro?»

Come un automa, annuii con la testa, rassegnata.

«Bene. Adesso proseguiamo da dove eravamo rimasti.»

Mi mise una mano dietro la nuca, mi sollevò con quella che ebbi quasi paura di definire delicatezza.

Mi sentivo rinchiusa in un corpo morto, che non rispondeva ai comandi e restava inerme agli ordini del cervello.

«Non ti ho colpita poi così forte, mettiti seduta.»

In realtà a me pareva di essere finita sotto uno schiaccia sassi, ma con uno sforzo che mi fece venire una spaventosa vertigine, riuscii a drizzare la schiena e a restare seduta da sola. Non mi tolse la mano da dietro la testa, e questo mi preoccupò.

PRICELESSWhere stories live. Discover now