12. L'anomalia emotiva

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Il modo in cui mi sentivo non era adeguato alla situazione.

Hai paura, ma non abbastanza e non delle cose giuste, e non è un bene.

Questo, aveva sostenuto Baker, e io non avevo trovato un modo migliore di inquadrare la questione.

Quello della gestione dell'emotività era sempre stato un problema, ma affrontabile. Non mi manca nulla, nel corredo emotivo: le emozioni abbondano e so goderne, così come mi capita di esserne vittima. Solo, a volte, le mie emozioni nascono, crescono e muoiono in modalità o in situazioni non proprio ordinarie.

E se Trevor Baker aveva individuato l'anomalia nella mia paura, c'era stato un uomo che l'anomalia l'aveva intravista nella sua interezza.

Sei nata con un baricentro emotivo spostato. Sei deviata. Sbagliata. Difettosa.

Mio padre me lo disse mentre mi accarezzava i capelli, cercando di frenare il pianto disperato di una diciassettenne che non riusciva a trovare il proprio posto fuori da casa e lontano dalle sue braccia.

E la tua diversità, Lea, ti ha resa così... allettante, da far sentire sbagliati gli altri.

Una frase che compresi nelle sue implicazioni solo qualche mese dopo.

Ma lui aveva compreso da prima. Non era raro che mi emozionassi per ciò che mi avrebbe dovuto spaventare.

Andavo dal dentista volentieri. Se la seduta era lunga, e richiedeva che me ne stessi mezzora con la bocca spalancata fin quasi a slogarmi la mascella, ero ancora più elettrizzata: se fossi riuscita a non chiedere mai una pausa da quella scomodità inflitta, mi sarei sentita realizzata, appagata. Mi piaceva sopportare, ecco. Il dolore mi appartiene, non credo di avere una soglia più elevata di altri nella percezione del dolore. È che spesso mi piace sentirlo, e prolungare la mia capacità di sopportare. Resistere è una cosa che mi esaudisce, in un certo senso.

Forse ha a che fare con l'esplorazione dei propri limiti, chissà.

Non è che non mi spaventa. Però mi spaventa di più il non riuscire a sopportarlo abbastanza. È solo un modo distorto di gestire la paura del dolore.

E capitava che avessi paura di cose che avrebbero dovuto emozionarmi.

Il primo bacio. Il primo sesso.

Non mi spaventavano le cose che spaventavano le mie coetanee. Mi spaventava quella perdita di controllo di cui leggevo sempre nei libri o di cui si parlava nei cartoni o che enfatizzavano nei manga. Sopportare il piacere è una cosa facile, nessuna sfida. Tutti vogliono provare piacere. Anche io, s'intende. L'origine del piacere, probabilmente, era il problema: la condivisione dell'atto o, addirittura, la concessione dello stesso.

Quella volta in cui piansi tra le braccia di mio padre, impaurita perché il primo bacio con la lingua ricevuto da uno di due anni più grande di me mi era piaciuto in modo così ordinario da non aver tratto un appagamento prolungato, fornì a Metto Gessi la prova di quello che già aveva intuito. Perché nessuna diciassettenne si sente così e se anche si sente così... beh... non va a piangerne tra le braccia del padre.

Quindi, mentre Trevor Baker mi spiava giorno e notte, mi minacciava, cercava di spogliarmi delle mie certezze oltre che dei miei abiti, io avevo più paura di non riuscire a resistere alle sue provocazioni e dargli di conseguenza la formula, le risposte per adattarla alle sue esigenze e il modo di renderla eterna che di morire per non avergli fatto avere tutto il corredo necessario ad esaudire le sue richieste.

Il risultato di quel baricentro emotivo spostato, quel sabato notte, fu che dormii serenamente fino a mezzogiorno, indifferente allo sguardo di Trevor o dei suoi cani che mi spiavano da un monitor, e cullata dall'appagante convinzione di aver turbato le terminazioni nervose di Baker più di quanto lui avesse turbato le mie.

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