63 Fammi male

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Avrei potuto disintegrare quella dannata porta con due spallate, ma dietro c'era Lea, e avevo paura di colpirla. Ma avevo anche paura di quello che le passava per la testa, perché l'immagine della mia cosina preferita che si era piantata la chiave di casa sua nella carne non l'avrei scordata mai.

Quando sentii il rumore dello specchio andare in frantumi abbandonai ogni remora e colpii la porta con la forza necessaria ad aprirla di colpo.

E fui dentro. Sentii distintamente ogni parte di me fare la stessa fine dello specchio: spezzarsi in piccoli e grandi schegge, tutte crudelmente aguzze. I morsi della rabbia si sommarono ai colpi dello strazio e feci appello a tutta la mia forza di volontà per non crollare sulle ginocchia accanto a Lea, in mezzo al sangue che ancora una volta abbandonava il suo corpo, tra i vetri infranti delle nostre anime e dello specchio.

Mi guardò con gli occhi grandi e lucenti di un cerbiatto sorpreso dai fanali di un'auto in piena notte.

«Bambina mia...»

Le sue manine bianche oltraggiate da rivoli scarlatti, i pantaloni del pigiama strappati all'altezza dell'inguine, lembi di pelle pugnalati spuntavano dal cotone scuro. Una manica alzata sopra al gomito, forse perché dopo la prima sfuriata Lea aveva voluto vederlo, quel rottame affilato mentre le scavava il braccio, liberando il dolore, il sangue, dando forma alla perdita.

Sanguinava come un maiale sgozzato, ma Lea non aveva voluto andare oltre l'afflizione, un martirio autoimposto che era una fuga, ma una di quelle che presuppone la sopravvivenza.

Mi avvicinai e mi sedetti accanto a lei, che andava soccorsa sotto tanti punti di vista, ma la ferita più grande era quella che non sanguinava e andava tamponata in fretta anche quella.

Presi un asciugamano candido e iniziai ad assorbire quel ruscello rosso che sembrava colarle da tutte le parti.

«Mi dispiace... per lo specchio.»

Aveva le mani fredde. Presi un altro asciugamano e glielo allacciai in torno alla coscia, che sembrava aver smesso di colare sangue. Feci lo stesso, con un asciugamano più piccolo, intorno al suo avambraccio che pareva voler collezionare cicatrici slabbrate.

Poi le strinsi le mani nelle mie e la guardai in silenzio perché avevo perso le parole su quel pavimento imbrattato. Parlò lei.

«A volte trovo pace solo nel mio stesso sangue.»

Capivo, c'era un fondo di verità. Sostituire un dolore con un altro era una pratica comune, antica. Ma io preferivo altre pratiche, ugualmente estreme, ugualmente pericolose, ma più efficaci.

«Non è un posto strano in cui cercare la pace, amore mio. Ma non è il migliore.»

Si accoccolò contro la mia spalla ma io la presi di peso e me la misi in braccio. Si fece piccola piccola, come uno scoiattolo nella sua tana calda e sicura. «E qual è il migliore?»

«Il sangue dei colpevoli, Lea. È lì che devi cercare la pace.»

Sospirò. «Preparo la mia vendetta da tanto tempo Trevor.»

«Lo so. Ma possiamo apportare una modifica piccola piccola, come te, bambina. Niente di decisivo per il tuo piano grande e grosso, sai? Ma credo sia ora di intervenire per restituire pace alle tue notti.»

«Cosa vuoi fare?»

Le passai la mano tra i capelli. «Lo facciamo insieme.»

«Quando?»

«Subito.»

Alzò la testolina e mi guardò al confine tra l'entusiasmo e il panico. «Cos'hai in mente?»

PRICELESSWhere stories live. Discover now