7. La sua degna erede

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Imprecai parecchio, mentre Andrey mi ricuciva la mano, ma non quanto lui, che ci diede lezioni di russo inglese e italiano tra una minaccia e l'altra.

«Devi stare ferma, ragazzina.»

Trevor ci osservò dal divano senza intervenire, lasciandoci in dote solo il suo sorriso quasi divertito.

Dopo il Martini, feci una cosa molto stupida. E mentre la facevo, detestavo l'intenzione che non riuscivo più a nascondere a me stessa: cercai nell'armadio un vestito sobrio, ma che si confacesse a quello di Trevor Baker.

Non lo trovai e mi accontentai, odiando ancora di più la mortificazione per quel fallimento che non avevo il diritto di provare. Feci la doccia tra mille difficoltà nel tentativo di non bagnare il lavoro fresco di cucito del russo poliglotta, senza che il getto bollente sciacquasse via quel senso di insoddisfazione che mi si era piantato nel petto.

Non asciugai i capelli, non tentai ti camuffare il labbro tumefatto dalla manata di Andrey. Indossai quell'abito di lino marrone poco scollato, con le spalline sottili, corto e comodo. Ai piedi un paio di sneakers chiare. Lo specchio mi restituì un'immagine poco soddisfacente: sembravo una ragazzina in procinto di andare a prendere il gelato con le zie.

Eppure, quando scesi le scale, imbronciata, Andrey sputò un commento in russo che aveva tutta l'aria di essere qualcosa di osceno sul mio aspetto.

Trevor non disse nulla, ma il commento osceno sul suo, di aspetto, mi affiorò tra le sinapsi con naturalezza: appoggiato alla parete, una mano in tasca e l'altra a sorreggere la giacca sopra la spalla con un dito, mi parve una visione quasi impudica. Mi squadrò come fossi in vetrina.

« Sì, approvo anch'io » disse, e aprì la porta di casa mia, come fosse la sua.

Una volta scesi di sotto Andrey prese una strada diversa, dopo aver confabulato in russo col suo capo. Io non lo salutai: ci mancava soltanto che dovessi essere cortese con quello che mi aveva praticamente preso a schiaffi poco più di un'ora prima.

«Avresti dovuto asciugarti i capelli.»

Non mi presi la briga di rispondere a quel commento idiota.

«Dimmi quello che devi, Baker. Evitiamo di perdere tempo entrambi cercando un posto diverso. Il marciapiedi è più che adatto ad accogliere i tuoi affari loschi.»

« È adatto anche ad accogliere quelle come te, in effetti. »

Non abbassai lo sguardo, affrontando la sua supponenza. Fuori da casa, sotto il sole settembrino, mi sentii stranamente al sicuro. Forse fu per la ritrovata libertà dalle microcamere, o i due Martini che mi scorrevano nel sangue.

«Quello che pensi di me non mi ferisce. Dimmi cosa vuoi, le tue cavolo di regole, e lasciami cercare la chiave per una ricchezza di cui non hai nemmeno bisogno.»

Mosse le labbra in un ghigno difficile da interpretare.

«Ti porto in un posto. Falla finita.»

Si avviò senza attendere una risposta. Era bello anche da dietro.

***

«No. Scordatelo.»

Mi ero bloccata davanti all'entrata del ristorante con le braccia incrociate, inamovibile, testarda e irritata.

«È un posto che conosco, riservato e adatto all'occasione. Entra senza rompere i coglioni, ragazzina. Pago io.»

Aveva detto una cosa così stupida che non mi presi nemmeno il disturbo di offendermi.

«Guadagno come un dirigente, non me ne frega un cazzo del conto. Ma non è un posto nel quale ho intenzione di nutrirmi.»

Sbuffò spazientito, e l'avergli finalmente provocato una reazione umana mi riempì di soddisfazione. Per qualche secondo gli era scivolata via la maschera da imperturbabile stronzo criminale, e anche quello che ci vidi sotto mi procurò materiale interessante per fantasie notturne.

PRICELESSWhere stories live. Discover now