19. Aspettami senza far danni (parte1)

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Sono sicura che lo avete pensato tutti, almeno una volta: il destino può essere infame, la vita ingiusta.

E sono vere entrambe le cose. Capita anche che le cose vadano bene, oppure che si sistemino inaspettatamente, ma è cosa rara, e il godimento è più effimero rispetto alla frustrazione che ci trasciniamo dietro in tutte le altre occasioni.

Ma alle fin troppo numerose cose su cui concordavo segretamente con Trevor Baker, se n'era aggiunta un'altra: le apparenze contano.

Ed era di quelle che ci vestivamo io e lui, da sempre. In questo eravamo dannatamente uguali. Lui mi aveva riconosciuta subito dietro il mio bancone raffinato, sotto i miei abiti costosi, nascosta tra le scartoffie della mia professione, mentre cercavo di splendere di notte, tra i bagliori delle stelle, davanti all'occhio della webcam, regina delle erezioni e Dea delle eiaculazioni.

Lo aveva colto presto anche lui, come lo aveva colto mio padre, il mostro che si annidava nei piccoli solchi lasciati dal passaggio del tempo, sotto le cicatrici che mi ricordavano le sconfitte che intimamente avevo incassato, depositato e a proprio agio, immerso nelle depravazioni di cui ero sia vittima che conduttrice: l'insaziabile fame di intimità.

E ogni tanto Trevor mi allungava qualche boccone, di quello mi nutrivo inconsciamente: mentre cercavo di resistere alla golosa tentazione di abbandonarmi al piacevole dolore che le sue mani potevano darmi, non mi accorgevo di aver già ceduto a ben altre tentazioni.

E chissà se a quel tempo con me stava solo giocando, pianificando il modo più dolce possibile per distruggermi, o se alla mia fame corrispondeva il suo effettivo desiderio di soddisfarla.

Ma qualunque meccanismo fosse stato messo in atto, attivato dalla collisione delle nostre esistenze, mi era ormai impossibile sfuggirgli.

E quindi, come Trevor, affidai le mie insicurezze alle apparenze.

Con la sua mano che inglobava la mia, entrai al Demons con la falcata di una fotomodella, un sorriso imbronciato, lo sguardo dritto, fingendo di sentirmi non solo a mio agio, ma addirittura a casa in quell'ambiente sconosciuto, sfacciatamente lussuoso.

E sebbene avessi evitato accuratamente di incrociare il mio sguardo con quello di chiunque altro, sentii quello di un pubblico curioso e maligno trafiggere il mio corpo, valutando le nostre mani intrecciate, giudicando la scelta di presentarci insieme, bellissimi, arroganti, sostenuti l'uno dalla vanità dell'altro, elevando il nostro fascino all'ennesima potenza.

Intorno molti suoni, troppe voci, una buona musica, lap dencer che bollai come inesperte e una moltitudine di uomini. Donne, pochissime.

Trevor mi guidò al bancone del bar, dove ordinò anche per me.

«Sai dove ti ho portato, Lea?»

Il barman appoggiò il mio Martini sul bancone e io trattenni la volontà di fiondarmici su. Lo portai alle labbra con pigrizia, anche se avrei voluto tracannarlo.

«Sono sicura che hai preparato un discorso lungo e articolato per espormi il concetto. E quindi avanti, Baker, dimmi dove mi hai portata.»

E intanto mi presi la libertà di guardarmi intorno, per affiancare il mio giudizio a quello che mi avrebbe somministrato Trevor. Scesa dall'auto, in un cortile tanto immenso quanto buio, avevo potuto solo intuire la struttura del Demons, illuminato dall'interno. Avrei voluto avere le competenze per stabilire l'età precisa di quella villa ora convertita a tempio ludico per ricchi annoiati in cerca di trasgressione, ma non avrei saputo stimare né l'epoca della struttura né quella degli affreschi, evidentemente ristrutturati con sapienza, che adornavano i soffitti a volta.

Era senza dubbio una Casa Signorile di qualche nobile antico. Una mente più fervida della mia avrebbe potuto fantasticare sugli intrighi e sui tradimenti che uomini dell'epoca avevano partorito tra quelle colonne di granito, ma io non ero in grado di andare oltre la contemplazione del casinò che di fatto occupava buona parte della sala.

PRICELESSWhere stories live. Discover now