68 Pietà e rispetto

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Credo che, nella nostra storia, sia impossibile sapere tutto anche se a raccontarla fossimo sia io che Lea. Senza dubbio ci sono moltissime cose che io non so di lei, altrettante che lei non sa di me, e Dio solo sa quante di queste cose preferiremmo non sapere e fingere non siano mai accadute.

Non racconterò mai a Lea quello che le è successo quella notte: saperlo la ucciderebbe. Ha quasi ucciso anche me.

Il fatto è che il corpicino di Lea è piccolo, e credo sia per quello che la febbre le salì così in fretta, come la piena di un fiume dopo settimane di pioggia. E quindi il paracetamolo potè ben poco contro quella scalata paurosa della temperatura: era come svuotare il Titanic con un secchiello.

Tornò a battere i denti, non riuscivo a scaldarla con niente, non con le coperte, non con il mio corpo, non con il riscaldamento a pavimento che avevo pagato quanto un trapianto di cervello. Non fu quello a preoccuparmi, però.

Mi preoccupai quando iniziò a piangere. Quello di Lea non era un pianto disperato o inconsolabile, no. Quello di Lea era un dolore che rubava la forma alle lacrime, così grande, così scalpitante, così incontenibile per un cuore umano da trovare la via d'uscita e scivolarle via dagli occhi, spinto fuori non dai singhiozzi, ma da lamenti trattenuti a stento dalla vergogna. La discrezione con cui tutto il suo buio le usciva fuori dal corpo ne accresceva l'insopportabile peso. Trattenere quel dolore era come affondare nello stomaco un pugnale anziché estrarlo: l'emorragia si spandeva dentro, aumentava i danni, infettava tutto.

Cercai di farmene carico almeno un po', infilandomi nel letto insieme a lei e avvolgendola con quell'inutile ammasso di ossa e muscoli che era il mio corpo.

Il problema fu che per quanto cercassi di portarle via un po' di quel male di vivere, la parte che restava addosso a lei era ancora troppa, nonostante la fetta che mi stavo prendendo fosse già sufficiente a sentirmi attraversato da una corrente di catrame e pece.

Poi dette voce al delirio che fino a quel momento era stato privato, e non ebbi più scelta, se non quella di partecipare con ogni fibra di me a quello che stava rivivendo lei.

La sua vocina sottile ma distinta come il suono di una corda di violino attraversò i suoi tremori e riempì la stanza del dolore.

«Perché mami non arriva?»

E quello fu il momento in cui capii che sarebbe precipitato tutto, quello in cui avrei conosciuto le ferite che avevo cercato di guarire, per prendere atto del fatto che non c'era davvero modo di farlo. Quello, fu il momento in cui seppi che mi stavo nuovamente immergendo con lei ma che non sarebbe stato il gelo a flagellarci, bensì il calore infernale di quello che le avevano fatto.

Non seppi come rispondere a quella domanda, annientato dalla consapevolezza di quello che stavamo per affrontare insieme. Sapevo che lei lo aveva già affrontato, e non poter impedire che accadesse un'altra volta mi uccideva. Ma il delirio di Lea non mi lasciò molto tempo per autocommiserarmi.

«È con papà?»

Le passai una mano tra i capelli, le baciai la fronte. Volevo solo che non si sentisse di nuovo da sola.

«No, posso assicurarti che non sono nello stesso posto, bambina. Non saranno mai più nello stesso posto.»

«Vorrei che la mamma tornasse. Non torna più?»

Mentii, vaffanculo. Mentii perché almeno mentre la febbre la privava della lucidità Lea doveva avere il diritto di illudersi, porca puttana. «Certo che torna. Sta arrivando.»

Le sfuggì un singhiozzo dalla bocca, mentre iniziava a non trattenere più il pianto. Sospirai, cercando di sopportare il suo dolore. Cos'avrei dato per sostituire tutto quell'orrore con un'altra pugnalata alla mano da parte di Viktor!

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