22 (ULTIMA parte) Voglio sapere se posso urlare.

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Quattro flute di Champagne. Quelli che ricordavo di aver bevuto.

Molti di più, quelli che mi aveva allungato Trevor nell'ora successiva. E io li buttai giù tutti, sdraiata sui quei comodi... bah... lettini, intercalando con chicchi d'uva, fragole e mirtilli a ogni sorso.

Ma quello non era Champagne, era un cazzo di nettare degli Dei: andava giù meglio dell'acqua.

E quindi non mi accorsi della quantità smodata che avevo ingurgitato finché non decisi di alzarmi per tornare nella camera padronale. E Trevor, invece, lo sapeva bene, quanto avevo bevuto. E io certezze non ne ho perché quello stronzo era imperscrutabile, ma se dovessi scommettere, direi che non lo aveva fatto per avare un più facile accesso alla mia vagina in favore del suo uccello. Lo aveva fatto per farmi notare quanto fosse facile, per me, perdere il controllo su alcuni aspetti dei miei vizi.

E fu così che in camera ci tornai tra le braccia di Baker, che mi prese in braccio con disinvoltura, come se pesassi cinque chili anziché cinquanta.

«Me ne hai versato troppo» lo rimproverai, mentre si richiudeva la porta alle spalle con un calcio.

«Gli ultimi te li sei versati da sola.»

«Era così buono...»

Mi adagiò sul letto, dove mi rannicchiai in posizione fetale, felicemente brilla, ma nient'affatto ubriaca. Credo.

«Lea, mettiti il pigiama, ti aiuto.»

Ridacchiai, sempre perché ero brilla.

«Non lo voglio mettere il pigiama.»

«È meglio se lo metti, credimi.»

E io il perché lo sapevo benissimo, ma glielo chiesi lo stesso. Non è che l'essere brilla potesse impedirmi d'essere vanitosamente stronza.

«Perché?»

E io che già non avevo dubbi sulla risposta, trovai ulteriori conferme nel suo sguardo vigile e teso.

«Perché posso resisterti in piscina, ma non sul letto, se tieni solo quella roba addosso.»

Mi vennero in mente decine di risposte da fornirgli. Mi uscì la meno intelligente.

«Allora dovrò togliermela di dosso...»

E non feci in tempo a slacciare nemmeno uno dei nodi laterali dello slip, che Trevor mi fermò, con non molta fermezza, a dir la verità.

«Quando deciderò che sarà giunta l'ora di scoparti, Lea, tu sarai sobria.»

Sorrisi.

«No, Trevor. Quando giungerà l'ora di scopare sarà perché l'ho deciso io.»

Sospirò, posandomi un bacio sulla fronte. Desistette anche lui all'idea di cambiarsi, e si sdraiò con il costume addosso.

La nostra pelle era impregnata dell'odore del cloro della piscina. Poi, d'impulso, sputai una domanda che senza dubbio aveva un'origine precisa. Ignorai l'origine, concentrandomi sulla domanda.

«Trevor. Tuo padre è uno stronzo?»

Mi misi su un fianco per vedere il suo profilo nella penombra della stanza.

Si passò le mani sul viso: parve preoccupato, o pensieroso. Non è mai facile interpretare le rare espressioni che Trevor concede al pubblico.

«Sì. Una merda di padre, di uomo, di essere umano. È meglio se non ti ritrovi tra le sue mani, bambina.»

Gli appoggiai una mano sul petto, disegnando piccoli vortici, come avrei fatto su un vetro appannato. Mi prese le dita e le baciò.

«Stai buona Lea, sono fatto di carne. E ti ho detto che ti voglio sobria.»

PRICELESSWhere stories live. Discover now