39 E comunque questo è un Valentino, stronza.

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Nella vita bisogna anche saper perdere. Saper perdere non vuol dire perdere, suppongo, altrimenti saremmo tutti campioni in questa disciplina.

Saper perdere dev'essere un qualcosa che ha a che fare con l'accettare la sconfitta e farla evolvere in qualcosa di più nobile, o utile, o cazzo ne so. Evolvere, comunque.

Mai stata capace di elevare una sconfitta a qualcosa di ammirevole. Mai.

Quindi quel giorno ero incazzata e demoralizzata, e me ne stavo rinchiusa nel mio rabbioso silenzio martoriando l'interno delle guance con i denti, unica valida alternativa alla tentazione di mangiarmi le unghie fino all'osso.

Dovevo avere un'espressione particolarmente accartocciata, dato che Trevor Baker s'azzardò a rivolgermi la parola solo dopo venti minuti di macchina.

«È solo il secondo giorno, Lea.»

«Non ne voglio parlare.»

«Nessuno si aspettava che tu oggi potessi buttare a terra una montagna di muscoli da oltre novanta chili.»

«Tu non sei una montagna di muscoli.»

«Sì invece.»

«La tua autostima tende a farti sopravvalutare le dimensioni di tutto ciò che ti riguarda, Trevor.»

Non mi riuscivano bene nemmeno le stoccate velenose: trovai poco efficace pure quella che avevo appena pronunciato.

«Domani andrà meglio.»

«Non è vero.»

«Non fare la bambina. Tu devi imparare soprattutto a dartela a gambe, Lea. Questa è la prima cosa che io e Andrey ti abbiamo insegnato, l'unica che non puoi permetterti di scordare.»

Sbuffai. Il mio corpo non mi obbediva, sul ring. Io volevo essere veloce, e lui era impacciato. Io volevo essere precisa, e lui non colpiva l'avversario. Io volevo essere attenta, e lui teneva la guardia troppo bassa. Io sapevo quello che dovevo fare, e anche come. Ma le gambe non erano abbastanza agili e le braccia mai abbastanza alte e il cervello mai abbastanza concentrato.

«Sei un cazzo di fenomeno con le armi da fuoco, comunque.» Mi prese la mano, nel dirmelo. Glielo lasciai fare. «Guarda che se ti scazzi ogni volta che scendi dal ring non ti ci porto più.»

Gli aprii il palmo con le mani, studiando il disastro che gli aveva lasciato la pugnalata di Viktor. Avevo notato che faceva quasi tutto con la destra. Al poligono non aveva sparato nemmeno un colpo, né quel giorno né quello prima.

«Non sta guarendo, vero?»

Si voltò a guardare fuori dal finestrino. «È ancora presto.»

«Puoi sparare?»

«Non ho bisogno di sparare.»

«Sei un criminale. Certo che hai bisogno di sparare.»

«Meno spesso di quel che credi, Lea. Non sono mica John Wick.»

Non cercai nemmeno di soffocare la risata. Quando tornò a guardarmi, stava sorridendo anche lui. Sembrava un'altra persona, quando lo faceva. Avevo due Trevor Baker al prezzo di uno, ed ero felice di non doverne scegliere uno, perché mi facevano girare la testa entrambi.

«A che ora passo a prenderti stasera?»

«Raggiungimi al Sweety, se vuoi. Mi accompagna Denis.»

«Ti accompagno io.»

«Trevor. Falla finita.»

«Passo alle otto.»

Sospirai, ostentando fastidio, covando gratitudine. Mi rilassai, finalmente, trovando un po' di pace nel disegnare piccole onde e delicati vortici con le dita sul palmo di Trevor, osservando il panorama che scorreva fuori dal finestrino diventare sempre più famigliare.

PRICELESSWhere stories live. Discover now