86 Scopami nel modo sbagliato

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Mi amò con tutto quello che aveva a disposizione. Con le mani, con gli occhi, con la bocca. Mi amò anche con l'uccello, decidendo deliberatamente di non usarlo. Io mi sarei sentita amata anche se avesse deciso di usarlo, a dir la verità, ma non feci capricci per la mancanza di sesso. Lo interpretai come un pegno per il suo ritorno. Trevor parlò poco quel giorno, ma si impegnò con instancabile concentrazione per far sì che non bruciassi il nostro tempo contando e maledicendo ogni secondo che passava incurante della mia insistenza affinché gli istanti si prendessero una vacanza, e smettessero di andare avanti.

Trevor quasi ci riuscì a convincermi che quel tempo aveva un valore, e che i minuti non erano l'ennesima perdita che dovevo affrontare.

Ma volle anche sapere alcune cose, e io capii che mi stava mentendo, e che lui odiava ogni scheggia di tempo tanto quanto me, perché quelle merde di ore non volevano smettere di fare il loro lavoro, lasciandosi incenerire da quella successiva.

«C'è qualcuno di cui ti fidi, nel posto in cui andrai?»

Me lo chiese mentre mi cambiava le garze intorno al braccio.

«Sì.»

Alzò lo sguardo, non convinto dalla risposta poco espansiva. «Qualcuno che conosci?»

Era una scocciatura la sua capacità di intercettare le mie bugie. Mentirgli avrebbe solo alimentato la sua inutile preoccupazione. «Non di persona.»

Come aveva fatto ogni singola volta in quei due giorni, mi baciò la mano fasciata dopo aver finito la medicazione. «E come fai a sapere che puoi fidarti?»

Lo accarezzai con la mano sana. «Nello stesso modo in cui so che posso fidarmi delle persone che abitano in questo condominio, Trevor.»

«Questa è gente che ti ha vista nascere e crescere, Lea.»

«Anche Matteo Gessi mi aveva vista nascere e crescere. Evidentemente non è una discriminante molto affidabile.»

Sospirò, passandosi le dita tra i capelli. «Hai un posto in cui alloggiare? Qualcuno che ti aiuti con la lingua straniera? Che ti possa portare da un medico per seguire i progressi dell'ustione o che ti possa visitare se ti senti male?»

«Sì.»

«È molto importante che tu abbia cura di te, bambina mia.»

«Avrò cura di me se tu ne avrai di te.»

Sbuffò. «Non è una risposta che mi soddisfa, Lea.»

«È l'unica risposta che avrai.»

Scosse la testa. Sapeva che non mi avrebbe strappato promesse diverse da quella che gli avevo appena fatto.

***

A pranzo ci portarono i cannelloni e io seppi riconoscerli con certezza: erano della signora Verdianelli e fui felice che fosse ancora viva.

Rimisi la pirofila pulita fuori dalla porta. Sul divano guardammo tutti i film de I guardiani della Galassia, tranne l'ultimo.

«È troppo triste» fu la lapidaria giustificazione di Trevor, la stessa che mi aveva dato settimane prima in ben altra occasione. E siccome avevo già troppi motivi per essere ben più che triste, accettai il suo verdetto.

Avevo sempre addosso qualcosa di Trevor: le mani, la bocca, gli occhi, o tutte e tre le cose.

Dopo i film le sue coccole divennero troppo focose da sopportare, mi consumavano piano come fuoco latente sotto cumuli di cenere.

Chissà se il Sweety era rimasto in piedi. Chissà se il suo scheletro oltraggiava l'orizzonte della sperduta campagna padana. Speravo di sì. Speravo che di me, in quel posto, rimanesse il corpo non abbastanza morto dell'unica cosa che mi era appartenuta davvero.

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