47 Facciamo finta di no

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Forse mi sarei dovuto cambiare la camicia prima di connettermi con i quattro angoli del mondo per recuperare in meno di quattro ore il lavoro che di norma io svolgevo in dieci e un normale uomo d'affari in due giorni. Ma non lo feci. Presi accordi per una fusione strategica tra una delle mie società e un'altra con sede a Hong Kong, convinsi senza fatica un CDA particolarmente mal disposto che quello che loro chiamavano "buco di bilancio" era in realtà un investimento a breve termine sull'efficacia della produzione di microchip, infine presentai agli azionisti e alla stampa olandese da remoto un piano industriale triennale per la ristrutturazione del modello di servizio di una S.p.A partecipata per oltre il 20% da istituzioni governative locali. Il tutto con il sangue di mio cugino rappreso che costellava il cotone pregiato che indossavo. Ne ero anche consapevole e anzi, quella consapevolezza mi generava un sinistro appagamento.

Si fece decisamente tardi, e quel giorno non portai Lea né al poligono di tiro né sul ring.

Quando mi vidi riflesso nello specchio del bagno a giornata ormai tramontata, pensai che almeno duecento persone sparse per il mondo mi avevano visto indossare la prova di un omicidio attraverso una web cam, ma che sicuramente tutti l'avevano scambiata per l'avanzo di un pasto consumato troppo maldestramente, o troppo in fretta.

Il cervello partorì a tradimento l'immagine di un barattolo di vetro con l'etichetta "Ragù di Alan". Poi la gola partorì a tradimento una risata al confine tra il grottesco e l'isterico.

Ero stanco. Molto, molto stanco.

Mi spogliai abbandonando i vestiti sul pavimento, li avrei fatti sparire successivamente.

Ricordo bene di essere entrato nella doccia e di aver sentito il getto caldo dell'acqua sulla pelle, sentendomi per la prima volta infinitamente vecchio, sciupato dalla vita, appesantito dalle mie esperienze recenti e non.

Pensai a Sebastian. Da lì a pochi giorni lo avrei rivisto. Lui era vecchio davvero, dentro e fuori. Le sue, di esperienze, come lo facevano sentire?

Avevo smesso di chiedermi il motivo che lo portasse a odiarmi quando avevo meno di dieci anni. Ne erano passati venticinque, e Sebastian non aveva smesso di disprezzarmi. Mai. Persino l'indifferenza sarebbe stata da me accolta come un miglioramento, un sintomo di umanità.

Mentre il vapore riempiva la stanza, tornai a sentirmi sopraffatto dai rischi di un futuro in cui l'unico modo per sopravvivere è brandire una ferocia più spietata di quella che mi circondava. Tornai a sentirmi un ragazzino attorniato da lupi.

Poi li vidi prendere vita sui vetri del box doccia, comparire come fantasmi tra le onde inconsistenti del vapore: i segni del passaggio di Lea.

Fronzoli sinuosi, vortici generati dalle sue dita minuscole che non potevano resistere al richiamo di un vetro appannato. Stelline, tante. Alcuni smile deliziosi. Il suo nome scritto sia in corsivo che in stampatello. E anche il mio. Sì, anche il mio nome. Accanto al suo. E un grosso cuore con la scritta "free Britney", che mi fece sorridere anche l'anima.

Mi venne voglia di uscire dalla doccia per telefonarle e dirle che Britney Spears ora era libera, non più sotto la custodia del padre. Ma non uscii. Rimasi a guardare il vapore depositarsi sul vetro e infondere nitidezza agli scarabocchi magici di Lea, finché mi sentii meglio.

Uscii, e vidi l'impronta del passaggio della mia bambina anche sullo specchio appannato sopra il lavandino.

E fu così che sorrisi, sentendomi rigenerato: se il mondo era una foresta piena di lupi, io sarei stato per loro gelo e carestia. E Lea sarebbe stata la mia eterna primavera.

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PRICELESSWhere stories live. Discover now