42 Scorre sangue immondo

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*** CAPITOLO DAI CONTENUTI POTENZIALMENTE DISTURBANTI, PRESENTI SCENE DI VIOLENZA E ABUSI***


Andrey aveva capito ancora prima che lo chiamassi: aveva visto la bestia nera ringhiare sommessa nel mio sguardo all'interno del Sweety, perché in fondo quella bestia l'aveva addestrata lui, per anni. Era salito in macchina con Dimitri prima ancora di ricevere il mio ordine, inviando la posizione della sua Audi che seguiva l'auto di Alan ai miei device.

Chiamai a radunata altri otto dei miei uomini, su tre auto, a inseguire la carovana composta da due veicoli di Alan.

Mi misi in contatto con Andrey, in vantaggio di qualche centinaio di metri rispetto a noi. «Liberati del secondo veicolo con discrezione. Alan però è mio.»

«Ha ucciso Sergej» mi ricordò. La fedeltà del mio esercito era un elemento essenziale, e non potevo permettermi nessuna crepa in quel momento cruciale. Gli uomini erano stanchi, lontani da casa da settimane, e avevano perso un fratello. Non potevo lasciarli completamente a bocca asciutta. Sospirai, perché condividere l'obiettivo finale della mia furia era un'altra condanna che avrei sopportato con grossa difficoltà.

«Va bene. Tu e Dimitri, mentre gli altri possono godersi lo spettacolo. Ma fammelo finire, Andrey.»

«Non finirlo troppo in fretta. Qua siamo tutti affamati.»

Brutta bestia, la fame. Fu quella, a guidarci tutti. I miei uomini volevano vendetta. Io giustizia.

Lungo le strade extra urbane che collegavano il Sweety alla piccola città di Lea, Andrey non riuscì a buttare fuori strada la seconda vettura che accompagnava Alan, ma gli detti ordine di non sparare alle gomme: meno pallottole volavano e meglio era. Ci mancava solo la Polizia italiana a ficcare il naso nei nostri affari.

Gli dissi di proseguire e restare alle costole di Alan: io guidavo una cavalleria di tre vetture e il modo di arrestare la corsa di quell'auto l'avremmo trovata senza problemi.

L'occasione si presentò dopo un paio di chilometri: uno svincolo non ben illuminato, tre platani al posto di un guard rail e un'isola spartitraffico che trasformava lo stradone in un bivio.

La mia Audi affiancò quella degli uomini di Alan sulla sinistra, l'altra mia Audi si mise sulla destra e la stringemmo in una morsa che non le lasciò scampo, dato che il terzo dei miei veicoli si piazzò sul retro spingendola dritta contro l'isola di cemento armato nonostante la brusca frenata.

Ne seguì una deflagrazione di vetri e rottami, stridore di gomme e acciaio accartocciato.

La mia terza Audi non ne uscì illesa, ma gli uomini sì.

Ci fermammo giusto il tempo di raccogliere i miei ragazzi, più ammaccati e più incazzati di prima, e ripartimmo sulla scorta delle coordinate che ci mandava Andrey, abbandonando dietro di noi un problema di targhe che avrei gestito il giorno seguente con una spruzzata di denaro nelle tasche giuste e un paio di modifiche ai numeri di matricola delle auto sui database dei registri italiani.

«Trevor...» la voce di Andrey mi raggiunse direttamente da mio dispositivo non ancora brevettato che la RedAnt aveva tentato di trafugare mesi prima. «Tutto bene?»

«Ci siamo liberati della seconda auto. Gli uomini stanno bene. Perché non ti stai più muovendo? Le tue coordinate non cambiano.»

«Perché sono fermo. Lo abbiamo preso.»

Meno di tre chilometri mi separavano da Alan. Mi fu facile stabilire il luogo in cui gli avrei strappato via la vita a morsi.

«Al magazzino abbandonato. Portalo lì, e ti raggiungiamo.»

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